ORRORE AL CIRCEO
LA PIETRA D'INCIAMPO
DI UN PAESE
IN BILICO

La storia è strana. Certe volte sovrappone fatti lontani che per un attimo si mescolano e la cui coincidenza poi magari scompare dalla memoria per una sorta di disallineamento dei ricordi.

Era estate. L’estate del 1975, con alcuni amici partimmo per le vacanze. Come al solito si andava in macchina guidando per ore. Quella volta esagerammo: partiti alle 23 da via dei Taurini dove era l’Unità, ci fermammo a mezzanotte del giorno dopo a Pamplona. Eravamo diretti in Portogallo. Non ci arrivammo mai. Ci fermammo a Santiago de Compostela e poi a Baiona. Per stanchezza. Per pigrizia.

Negli ultimi giorni di vacanze – doveva essere il 10 di settembre – mentre eravamo nella cattedrale di Santiago ci chiusero le porte alle spalle. Partecipammo – unici stranieri – alla visita che ogni anno Francisco Franco faceva alla chiesa del Santo protettore della Spagna, lungo la strada tra le sue vacanze a El Ferrol del Caudillo e il rientro a Madrid.

Franco, vestito in divisa, ci sembrò già morto: avanzava a fatica, sorretto e spinto dalla sua corte, tra vescovi e generali. Per un momento sembrò che dovesse cadere. Fu l’ultima apparizione pubblica del dittatore, ma non il suo ultimo atto. Qualche giorno dopo firmò con le sue mani da mummia l’ordine di esecuzione per cinque antifascisti baschi militanti dell’Eta. Non erano certo i primi. Furono gli ultimi, per fortuna.


(I funerali di Francisco Franco)


Noi eravamo tornati a Roma quando il 27 di settembre vennero ammazzati in ordine sparso: uno fucilato in caserma, l’altro in prigione a Bilbao, uno a Madrid e altri due a Barcellona. Il regime aveva rinunciato ad usare contro di loro la garrota (una macchina da esecuzione per strangolamento che somiglia a uno strumento da tortura medievale), ma non aveva rinunciato all’orrore. Quelle esecuzioni precedettero di un paio di mesi la morte di Franco e di un anno la fine del regime che aveva incatenato la Spagna per quarant’anni, una dittatura lunga il doppio di quella italiana.


STORIA DI DONATELLA
FINE PENA MAI


In quei giorni i giornali erano pieni di notizie che arrivavano dalla Spagna: scioperi di protesta, manifestazioni a Bilbao, a Santander, a Barcellona. La prima pagina dell’Unità faceva titoloni. Il 2 ottobre l’apertura a nove colone suonava indecifrabile: “Clima di intimidazione in Spagna”. Era un eufemismo, perché nell’articolo - firmato dall’inviato Pier Giorgio Betti - si leggeva che a Madrid erano stato ammazzati tre poliziotti a colpi di mitra, sembrava la vigilia di un nuovo bagno di sangue. Insomma l’attenzione era da un’altra parte, quando in prima pagina fece la sua comparsa quella che ancora non si chiamava la “strage del Circeo”: c’era la foto di una ragazza, giovanissima, con la faccia rotonda e i capelli arricciati. Somigliava a mia sorella. Si chiamava Rosaria Lopez ed era stata ammazzata in una villa al Circeo. Con lei c’era un’amica, Donatella Colasanti, che si era salvata solo perché credevano fosse morta. Le aveva trovate un carabiniere in pensione che aveva sentito dei lamenti levarsi dall’auto. Le due ragazze erano chiuse nel bagagliaio di una Fiat 127 in via Pola. Una stradetta sulla Nomentana a un isolato dal San Leone Magno, la scuola cattolica che avevano frequentato due degli assassini.

Non fu mai un “giallo”. In questi tempi, in cui ci si appassiona tanto alle prove del DNA, si inseguono tracce e misteri con una morbosità all’epoca sconosciuta, un delitto così apparirebbe deludente. Uno degli assassini fu preso la notte stessa del ritrovamento, individuato da un metronotte mentre cercava di scappare dopo ver visto le auto dei carabinieri accanto alla 127. La “scena del crimine” era piena di tracce, l’auto era di proprietà di un altro dei colpevoli, sul parabrezza incastrato sotto il tergicristallo c’era una messaggio di alcuni loro amici che erano stati coinvolti nel tentativo di far sparire i cadaveri. Quei tre assassini si chiamavano Andrea Ghira, Giovanni Guido e Angelo Izzo. Due finirono in galera subito. Uno mai: Andrea Ghira scomparve dando vita ad un giallo - stavolta - che non ha ancora trovato una soluzione. Il fatto stesso che a “risolvere il caso” fossero stati un vecchio ex carabiniere e un metronotte fanno scomparire la “detective story” e ci restituisce solo la tragedia e la violenza.

La vicenda della Spagna e questa del Circeo non c’entrano nulla l’una con l’altra. Salvo che tutte e due portano il marchio del fascismo, del machismo (componente incomprimibile più che mai nella versione ispanica del fascismo), della brutalità, del disprezzo di classe. Per qualche giorno le due notizie finirono per coabitare nelle prime pagine dei giornali ma oggi noi tutti ricordiamo una sola storia, quella del Circeo.

Se la ricordiamo.

L’inciampo delle pietre

“Resta non per i sociologhi, i tanti,
anche troppi giornalisti che ne scrissero, o i
politici ignavi – resta per chi era ragazzo,
e quella ragazza s’era mutata nella maschera
d’una tragedia, casualmente, così come
spesso avviene a chi il Male non lo pensa,
alla sua banalità efferata già in questo:
nello sconfinare, alterarsi, dal sorriso
alla smorfia, dal sogno più scanzonato d’un pomeriggio adolescente, a una notte
di tregenda che impaurisce anche i diavoli…

Così il poeta Plinio Perilli ricorda Donatella Colasanti. E questi suoi versi sono finiti impressi sulle pietre d’inciampo collocate all'incrocio fra la Nomentana e via Pola, dov’era la macchina abbandonata con le due ragazze dentro, avvolte nei sacconi neri dell’immondizia. Scarti, avanzi erano queste ragazze per i loro assassini che le avevano abbandonate per andare a cena.

Queste pietre bianche tra l’asfalto nero si vedono da lontano e fanno tornare in mente quelle altre pietre (stavolta di metallo lucido) che ricordano gli ebrei romani rastrellati, deportati e ammazzati dai nazisti. Qualche centinaio di metri più in là, davanti al cancello di un villino di via Alessandro Torlonia, ce ne sono cinque. Sono quelle della intera famiglia Finzi. Tutti uccisi. Sovrapporre la tragedia della Shoah al massacro del Circeo non è irrispettoso.

Che paese era quello di quegli anni Settanta? Era un paese in bilico: c’era ancora l’Italia del delitto d’onore, quella in cui se un uomo uccideva una donna (la moglie, la figlia) che lo aveva “disonorato” in carcere forse non ci finiva nemmeno. Eravamo il paese in cui lo stupro non era un delitto contro la persona ma contro la morale. Il divorzio era una conquista che profumava di nuovo (solo un anno prima un referendum lo aveva salvato dalla voglia clericale di cancellarlo) l’aborto era ancora una pratica da mammane e le donne che vi ricorrevano rischiavano il carcere oltre che la vita e la salute: solo nel 1978 fu approvata la 194, la legge che ancora dopo mezzo secolo è in vigore.

Ma eravamo insieme il paese dove il femminismo era una ondata crescente, forse più che nel resto del mondo, e dove i cambiamenti del ruolo – e prima ancora della percezione di sé – delle donne incontravano la politica. Trasformandola e qualche volta aprendo conflitti inaspettati. Lotta Continua, il movimento extraparlamentare più radicato tra i giovanissimi, finì per sciogliersi attorno a questo conflitto che era sfociato in scontri di piazza interni in occasione di un corteo dell’8 marzo. Al Castelnuovo, un dei licei più rossi della capitale, sui muri comparivano slogan paradossali: “Se vedi un punto rosa spara a vista. O è una saponetta o è una femminista” che mimava lo slogan estremista “Se vedi un punto nero spara a vista. O è un carabiniere o è un fascista”, firmati da un fantomatico collettivo “Kazzi chiodati”.


(L'auto in cui furono rinchiuse Rosaria Lopez e Donatella Colasanti)


Sulla lama del rasoio

Eravamo su questa cresta, su questo tornante, su questa lama di rasoio quando i fascisti del Circeo ammazzarono Rosaria Lopez e cercarono di fare lo stesso con Donatella Colasanti. Quel delitto era una scoria del passato ma insieme l’annuncio di quello che sarebbe stato un pezzo del nostro futuro, il pezzo più regressivo certamente ma non è un caso se cinquant’anni dopo l’Italia è diventata il paese dei femminicidi: abbiamo il record più positivo per i delitti e il peggiore per le uccisioni di donne. I numeri parlano chiaro, nel 2024 ci sono stati 319 assassinii (pochi di più del numero di vittime per mass shooting negli Stati Uniti) ma il 35% degli ammazzati erano donne. È una strana contraddizione: un tempo si ammazzava perché la criminalità organizzata si contendeva ricchezze e territorio, oggi si ammazza per affermare un ruolo vissuto come sempre più incerto e in crisi.

Non ricordo più chi, parlando della società dell’irrazionalità e della violenza in questi tempi trumpiani e di ritorno dei sentimenti arcaici e moderni come l’egoismo delle piccole patrie o dei grandi imperi, ha usato una citazione di Paul Valery: “Siamo su un pendio terrificante e irresistibile. Nulla di ciò che potremmo temere è impossibile; possiamo temere e immaginare quasi tutto."


DALLE VILLE 'BENE'
AL DARK WEB


Ecco, quel delitto era proprio l’annuncio di quel pendio. Le due ragazzine umiliate, imbrogliate e violentate erano le prede. I tre fascistelli assassini che si trastullavano a travestirsi da criminali (uno di loro si era fatto passare per il capo della banda dei marsigliesi), che giocavano coi soldi, col potere delle famiglie, con la rete di relazioni che ti rendevano “intoccabile”, con il delirio d’onnipotenza di chi decide della vita degli altri (delle donne, intanto) costruivano l’immaginario di un modo di essere maschi.

Quando, nove anni fa, uscì “La scuola cattolica”, il romanzo di Edoardo Albinati che affronta la storia della strage del Circeo, la cosa che mi colpì di più (anche al di là del valore letterario di questo che può esser letto come il “grande romanzo italiano”, ovvero il contraltare nostrano del vagheggiato 'Great American Novel' incarnato di volta in volta da "Moby Dick" o da "Pastorale americana") fu l’approccio. Il libro – uno sterminato romanzo, riflessione, mémoire, saggio lungo 1300 pagine – aveva al centro il delitto del Circeo, ma la prima volta che la Fiat 127 bianca parcheggiata in via Pola viene nominata siamo già oltre le 400 pagine. Per Albinati il delitto è l’autoritratto di una generazione – lui e due degli assassini frequentavano la stessa “scuola cattolica”, il San Leone Magno al quartiere Trieste – in cui finire per diventare un assassino oppure un impegnato e “pacifico” romanziere era un po’ come cadere per caso da una parte o dall’altra dello stesso crinale.

Quell’educazione bigotta, quella scuola solo per maschi in cui l’unica donna ammessa è la Madonna, questa smaterializzazione del femminile che finisce per essere una ipermaterializzazione di un pezzo di umanità con cui non si condivide nulla e che quindi non può che essere un oggetto. Questo intreccio tra desiderio e violenza, tra possesso e stupro che è così “basicamente” maschile nella tradizione culturale del sentirsi uomini che affonda le sue radici nel patriarcato, sono l’intreccio profondo del libro. Fino a far giungere Albinati a questa riflessione: “Noi viviamo in una società dello stupro. Ostilità rapacità e potenza trovano una manifestazione sessuale. Il sesso è il linguaggio, non la cosa. È il modo di volere, non l’oggetto voluto. Si declina attraverso il sesso qualsiasi pulsione: vendicativa, rivendicativa, esibizionistica, identitaria. I ragazzini stuprano le loro compagne di classe e le filmano col cellulare. Libertà intesa come facoltà di nuocere. Libertà = delitto. Una piena realizzazione di se stessi può avvenire solo se si è pronti a prevaricare gli altri, e capaci di farlo. L’io coincide in pieno con la potenza”.


IL GIORNO DEL RICORDO


Tutto questo non ci piace, ma credo che da qui – per quanto brutto ed estremo possa apparire – bisogna partire per capire, per cambiare. Quando si parla di “educazione sentimentale” dei ragazzi credo che il problema non sia tanto di offrire regole o buoni comportamenti ma di prendere di petto la radice di questa violenza cominciando dall’accettare l’esistenza di queste pulsioni... Lo dobbiamo a Rosaria Lopez e a Donatella Colasanti se non vogliamo farne dei rassicuranti santini ma , letteralmente, delle donne e quindi delle “pietre d’inciampo”

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