NAIA, QUANTI DELITTI
SI COMMISERO
IN TUO NOME

Nelle case dei pugliesi (e forse non solo,) di chi aveva sofferto la fame della II Guerra Mondiale, era facile un volta sentire due battute che rimarcavano la differenza (sostanziale) tra chi la fame l’ha davvero vissuta e chi invece la ignorava del tutto (per fortuna): “…ti ci voleva la guerra”, solitamente detta quando si sprecava del cibo o quando si manifestava una schizzinosità puerile; “…ti ci voleva il militare” quando invece si manifestava una poltroneria sfacciata o una tendenza a ignorare ordini dettati da un familiare più anziano.

I due detti sono ormai caduti in disuso. Grazie al cielo, nessuno più augura una guerra a qualcun altro, e di servizio militare in Italia non se ne parla più da oltre vent'anni.

Sull’utilità del servizio di leva ci sono sempre state opinioni discordanti.

Io l’ho fatto. Ed è servito parecchio.



A differenza dei cugini terrestri dell’Esercito, con cortese premura, poche settimane dopo il mio diciottesimo compleanno, fui invitato a fare una visita medica, propedeutica allo svolgimento del servizio di leva, dalla nobile Marina Militare.

Per qualche regola non scritta, a quanto pare chi nasceva in una località di mare era naturalmente destinato a svolgere la leva in Marina. Infatti io lo nacqui, ma dei miei primi 18 anni ho vissuto poco meno di 3 anni in cittadina di mare, a Trani, vicino Bari. Era naturale quindi che andassi in Marina.

Molti però, se non tutti i ragazzi, volevano evitare di “fare il militare” in Marina per il solo fatto che la leva durava 18 e non 12 mesi. E io ero tra quelli.

Mi presentai, insieme ad almeno un altro centinaio di ragazzi, all’appuntamento. Le visite si svolgevano in una palazzina che apparteneva al corpo dei Vigili del Fuoco in Via del Porto Fluviale a Roma, a ridosso del ponte di ferro (tristemente distrutto da un incendio pochi anni fa) che univa la sponda del Tevere lato Porta Portese a quella lato Garbatella, per intendersi.

Non ricordo molto di un trattamento in stile “Ufficiale e Gentiluomo” ma ricordo che mi trovai in un ambulatorio, con addosso le sole mutande in visita con un ufficiale medico che assomigliava molto all’attore William Hurt.



Riempito il modulo di visita, un foglio ingiallito stampato in ciclostile con caratteri appena leggibili, l’ufficiale si alzò e iniziò la visita partendo dai battiti cardiaci. Mi infilò una stecca di legno in bocca come volesse cercare un’altra via d’uscita e mi chiese perché non avevo tolto le tonsille. Con la bocca ancora aperta e con ancora la stecca che schiacciava la lingua farfugliai un “no ..o…so…”

Continuò con il rituale dei colpetti sulla schiena, si sedette e riempì qualcuna delle caselle del foglio.

Al “giù le mutande” capii che il peggio stava per arrivare. Troppo giovane per le indagini urologiche tipiche degli uomini più d’età, l’ufficiale si focalizzò sulle parti maschili anteriori, e sempre col dito medio andò alla ricerca di un’ernia inguinale, che grazie al cielo non c’era.

Fui sollevato dalla diagnosi negativa, ma infastidito dall’esplorazione.

Penna in mano pronto a trascrivere una mia risposta, il medico mi chiese se soffrissi di qualche malattia.

“Si. Sono allergico alle graminacee, soffro di emicrania, soffro il mal di mare, anzi non so nuotare, a volte sono colto da sonnambulismo e l’umidità accentua i dolori reumatici alle giunture” recitai a memoria.



Stranamente, dopo aver segnato l’allergia il medico aveva smesso di scrivere.

“Ma lei vuol fare il militare in Marina, sì o no?”

Questa è una domanda a trabocchetto, pensai. Con in mente il “dilemma del prigioniero” di cui ero esperto sin dalle elementari ogniqualvolta mi trovavo dinanzi al preside che ricercava il colpevole di qualche malefatta, decisi di risponde con sincerità.

“No.”

“Bene, sei riformato.”

Ero pronto per scoppiare in lacrime di gioia quando l’ufficiale inaspettatamente mi pugnalò con “ti mando nell’Esercito.”

Passati gli anni di rinvio per motivi di studio, meno premurosi degli aristocratici marinai, l’Esercito non mi invitò ma mi convocò, se ricordo bene con 2-3 mesi di preavviso, a presentarmi alla caserma in Orvieto per l’addestramento iniziale per diventare un eroico Granatiere di Sardegna.

Stavo completando la mia tesi di laurea e mancandomi pochi mesi per l’esame di laurea mi detti da fare e trovai quell’amico dell’amico dell’amico disposto a “vedere cosa si può fare.”

Qualche settimana dopo, mi arrivò una cartolina di rettifica che cambiava la mia destinazione e il corpo militare: bieca Fanteria e destinazione Macomer, nel cuore isolato e selvaggio della Sardegna.

Scoprii che era una caserma di punizione (per gli ufficiali a quanto pare) per cui non rivolsi più la parola all’amico.

I mesi più freddi a Macomer sono da gennaio ad aprile, e io, 1° Scaglione 1984, ero lì da gennaio ad aprile. Non per diventare ufficiale né, tantomeno, gentiluomo, che comunque non mi sarebbe stato difficile visto chi avevo attorno, ma dopo due settimane di marce attorno al piazzale mi interrogai sul cui prodest di tanta fatica. La risposta? Per il giorno del giuramento. Il famoso “LO GIURO!”

Dovevo trovare una via d’uscita.

Tra i commilitoni vi era un ragazzo, ricordo di nome George, che parlava un italiano come il cestista-giornalista nano Dan Peterson. Notai che non era mai presente alle marce. Gli chiesi dove si imboscasse (termine tipicamente militare) e mi confessò che dava lezioni di inglese al Colonnello.



Ma come, un italo-inglese può dare lezioni al Colonnello e un italo-americano no? Mi detti da fare e convinsi uno dei Marescialli a farmi fare ripetizioni di inglese a suo figlio “a gratis!” Ovviamente durante le ore dedicate alle marce.

E così fu.

Evitai le marce, le guardie, i turni in cucina, le ramazze e ogni altra intensa attività di addestramento alla guerra. Non potei esimermi però dall’esercitazione di tiro con il fucile Garand M1, un residuato bellico semiautomatico di 5 chili. Partecipai con curiosità ed entusiasmo.

Partimmo con i camion militari alla volta di Bosa Marina. Ci volle un po' ma superato il panorama desolante dell’entroterra sarda arrivammo su una altura, con uno strapiombo non so di quanti metri, che affacciava sul mare.

A turno, dovevamo prima inserire con una mano sola il caricatore, sdraiarci sul terreno polveroso a gambe spalancate, prendere la mira immaginando di avere di fronte a noi un soldato nemico (ma avevamo il blu del mare davanti!) attendere l’ordine di sparare e premere il grilletto 4 volte, perché tanti erano i colpi a disposizione. Poi dovevamo lasciare l’arma per terra, alzarci e tornare sul camion. Partimmo come sbandati alle 8 del mattino, tornammo per le 16 esperti cecchini.

Il mio corso di addestramento durò poco meno di 4 mesi. Grazie al cielo ero sveglio abbastanza da capire che all’ordine “PASSO” dovevo sbattere con forza il tacco dello scarpone sul pavimento, e come fare per accorciare il passo in modo opportuno per fare ruotare come su un perno la riga di soldati in sfilata.

Ma la difficoltà maggiore è stata rimanere seri nel momento dell’urlo del giuramento: “LO GIURO!”

Non perché ci mancasse il fiato ma per l’assomiglianza tra la “GI” di giuro e la “D” di duro. Anche noi del 1° Scaglione 1984 ci riuscimmo.

E così si concluse l’addestramento di un battaglione di agguerriti soldati, famelici di sangue, pronti ad ogni cosa pur di sopraffare qualunque nemico.

Quelli con tatuato sul bicipite “vai avanti tu, che a me mi vien da ridere.”

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