Un vino bianco tra i più bramati degli ultimi anni. Talmente singolare che sprona schiere di vignaioli a scommettere su un vitigno per certi versi sconosciuto, stanziale solo sul crinale di alcuni colli attorno a Tortona, zona vicino Alessandria che guarda il mare ligure.
In alto, talmente alto che più su non vive. La vite, sulle Dolomiti, è uno dei più importanti indicatori ambientali. È la pianta che meglio interpreta la fatica dei montanari. Gente che dalla loro vigna hanno sempre ricavato sollievo, non solo economico.
Sul perché la Schiava si chiami così e come mai nelle valli dolomitiche di madre lingua tedesca venga chiamata pure Vernatsch, é aperta una vera e propria ‘querelle’ scientifica. Per vite ‘schiava’ s’intendeva una pianta ‘legata ad un sostegno morto’, solitamente un palo.
In alcune ‘terre di mezzo’ ancora si stappano rudimentali bottiglie di vini ritenuti proibiti e dunque (tuttora) bramati da qualche sparuto gruppuscolo di bevitori. Vini dozzinali ottenuti da piante di viti originarie dell’America, vale a dire Clinton, Fragolino e Bacò.
La prima volta che viene citata risale al 1400 ed è suggerita nel ricettario del Maestro Martino de Rossi, pioniere della gastronomia, autore di un manoscritto ora in via di restauro a Riva del Garda. È la parola ‘polpetta’. Elaborazione scritta nel ‘Libro de cosina’, opera rinascimentale.
Groppello di Revò, un vino che viene nelle ultime stagioni in qualche modo recuperato. Merito di uno sparuto gruppo di vignaioli nonesi, che stanno arditamente difendendo microscopici appezzamenti vitati, sotto il castello di Cles che troneggia e si erge come baluardo identitario.
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