MIKE, CAROSELLO
E RIN TIN TIN
QUANDO ENTRÒ IN CASA
MAMMA TV

  • Gianni Cerasuolo
    (foto di apertura di Gian Battista Colombo, 1921-2005)
  • 22 LUGLIO 2025

Quando il televisore arrivò nel palazzo fu un avvenimento. A una a una le famiglie ebbero accesso nell’appartamento della commare Elvira, l’anziana nonna che abitava con la figlia, il genero e i nipoti al quarto piano dell’edificio. Un pasticcino e un bicchierino di rosolio accompagnavano la visita nella camera da pranzo dove su una parete c’era lui, poggiato su un robusto tavolino: il televisore Geloso. Era il sogno degli italiani, elegante nel suo scatolone di legno di radica, enorme e pesante un quintale, il tubo catodico delle meraviglie nascosto in quel parallelepipedo che diventava subito un mobile da arredamento. Il totem che diffondeva sogni e nuovi divi, e piano piano ci avrebbe soggiogato, aveva delle piccole e grandi manopole in basso, poco sotto la scritta in diagonale Geloso. Servivano per sistemare il contrasto, la luminosità, fissare l’immagine se cominciava a sobbalzare su e giù o di lato. Imparammo una parola nuova: sincronizzazione. Eravamo tra il 1955 e il 1956, ero un bambino di 7/8 anni. La Rai aveva dato il via alle trasmissioni nel gennaio 1954, canone 12 mila e 500 lire all’anno che non gravava sulle bollette della luce.


(Il televisore Geloso)


In quel tempo si parlava di due cose, della Seicento e del televisore. Per quelli che avevano la possibilità di acquistarli. A volte, anche le rate erano un macigno. Non fu subito boom. Il televisore arrivava a costare anche 450 mila lire. "L’abbiamo preso un tanto al mese" annunciava donn’ Aurelio, tutta una parola, il padrone di casa. "Signor Elio, signora Virginia venite pure così vediamo qualcosa insieme" aggiunse rivolgendosi, soddisfatto e borioso, verso i miei genitori. Fu così che qualche sera della settimana si scendeva dal quinto al quarto piano. Dopo cena, verso le 21. Scoprimmo il telequiz. Mike Bongiorno aveva cominciato le prime puntate di “Lascia o raddoppia?” al sabato. Poi furono spostate al giovedì (i cinema non volevano sospendere la proiezione dei film il sabato): fu il primo spettacolo di intrattenimento della tv italiana, un’ora che raccolse in cerchio tutta l’Italia. Beniamino Placido scrisse: "Le famiglie si riunivano la sera intorno all’apparecchio televisivo come avevano fatto prima per il rosario". Era l’epoca di “Un, due,tre” con Vianello e Tognazzi (ma all’inizio c’era Mario Carotenuto), del professore Cutolo, il pacioso docente napoletano della Statale di Milano, garofano all’occhiello, che rispondeva un po’ su tutto, di padre Mariano ("pace e bene a tutti"), del maestro Manzi, dei dieci minuti di “Carosello”, di Angelo Lombardi “L’amico degli animali”, di Riccardo Paladini che leggeva i Telegiornali, di Rin Tin Tin e della “Tv degli agricoltori”, una noia mortale.


(Una puntata di Carosello)


Tutta roba cult decenni e decenni dopo, come sappiamo. Alla pari degli sceneggiati, così si chiamavano al tempo della paleotelevisione. Oggi sono più o meno le serie tv. La Rai sfornava tanti sceneggiati, girati in studio con riprese che adesso fanno sorridere. Ma i registi e gli attori erano di gran livello: “L’Alfiere” (tra i primi del mitico regista Anton Giulio Majano, nel cast c’erano Emma Danieli, Achille Millo, Nino Manfredi, Domenico Modugno, Ilaria Occhini, Monica Vitti); “Cime tempestose”, che ebbe un’alta audience; “Jane Eyre” (ancora la splendida Occhini, Raf Vallone e un Ubaldo Lay che metteva paura). Era la letteratura che diventava popolare. Io però, piccino, mi addormentavo. Quel pellegrinaggio al piano di sotto mi imbarazzava. La padrona di casa, la buona maestra Michelina, aveva accolto me e un altro bambino nella prima elementare dell’Istituto Guglielmo Marconi di Pozzuoli. Io e Roberto, gli unici due maschietti soverchiati e ridicolizzati spesso dalle femminucce. Uffa. Ma il giovedì sera toccava andare a casa della maestra. Del resto, era un’ipnosi collettiva. Le strade erano vuote come successe con i ragazzi di Bearzot e di Lippi. La gente riempiva i bar, non c’erano allora friggitorie, pizzetterie e kebab che appestavano l’aria delle città. Si andava tanto al cinema ma la tv cominciò ad insinuarsi.


(La sigla di 'Lascia o Raddoppia?')


I gestori allora sospendevano la programmazione dei film e proiettavano nelle sale il programma di Mike. Tanti raggiungevano le case di parenti ed amici. Come noi. Ce lo hanno raccontato Ettore Scola e Giuseppe Tornatore in “C’eravamo tanto amati” e in “Nuovo Cinema Paradiso”. E anche Totò. Soltanto un bel po’ di anni dopo avremmo leggiucchiato Adorno che ci svelò l’industria culturale. Poi sapemmo che lo scatolone televisivo serviva anche a creare coesione sociale e consenso politico. Noi descamisados di sinistra non guardavamo la tv, anzi applaudivamo Pasolini quando diceva che andava abolita. Così Sergio Saviane e i suoi articoli sull’ “Espresso” divennero tra le nostre letture preferite. Contro Mike "campione di mediocrità e di conformismo" e le sue gaffe avremmo citato fino alla noia, per comodità ideologica, Umberto Eco e la “Fenomenologia”. In poche parole, Mike ci faceva schifo. A posteriori. Allora però, a metà anni Cinquanta, Mike e la Edy Campagnoli, valletta muta e riservata, vittima spesso delle battute del conduttore, sbattuta sulle copertine dei rotocalchi quando sposò Lorenzo Buffon, portierone prima del Milan e poi dell’Inter, lontano parente di Gigi, furono i protagonisti di quel lungo periodo (“Lascia o raddoppia?” andò avanti fino al 1959) di assaggi televisivi. Da quel televisore in legno con lo schermo grigio-verdognolo uscirono tanti personaggi ma anche gente di tutti i giorni che ancora si ricordano (Youtube ci dà una mano, intendiamoci) perché poi il programma sterzò verso un vero e proprio show, a volte melodrammatico.


(Le avventure di Rin tin tin)


Il simbolo erano un omino pensieroso e la sua ombra, incerto se lasciare o raddoppiare, un grande disegno che gli scenografi avevano posto sotto l’orologione bianco negli studi della Fiera di Milano. Eccoli i miei pochi spezzoni di techetechetè dal cassone Geloso: Paola Bolognani, la biondissima di Pordenone, ultrà juventina come Mike, che rispondeva sul calcio, argomento che allora sembrava fuori luogo per una donna. Si portò a casa i 5 milioni e 125 mila lire della vincita finale. Il telequiz prevedeva un primo guadagno di 2500 lire, poi si si saliva a 40 mila, un altro step a 320 mila fino a quella somma finale milionaria in gettoni d’oro. Se sbagliavi nel rispondere alla domanda da 2 milioni e 560 mila lire ti consolavi con la Seicento. La Fiat era ubiqua come Sinner con gli spot. L’utilitaria fu la magra consolazione anche di Lando Degoli, esperto musicale, uomo alto e robusto, professore di matematica di Carpi, popolarissimo come Gianluigi Marianini, il dandy torinese. Degoli era il prediletto di mio padre, cadde nella penultima tappa sul controfagotto di Verdi. Lui rispose che il maestro aveva usato lo strumento nel “Falstaff”. Invece lo aveva inserito nel “Don Carlo”, ribattè Mike. Finì male: perché Degoli fece ricorso, lo vinse, ma poi non percorse molta strada nella replica. Un po’ quello che succede a Nicola Palumbo, il professore di Nocera Inferiore, cinefilo e chiacchierone, uno straordinario Stefano Satta Flores, che scivola su “Ladri di biciclette” in “C’eravamo tanto amati”.


(Una puntata del Musichiere)


Non è che andasse una meraviglia il Geloso: spesso l’immagine sobbalzava, donn’Aurelio doveva intervenire girando e rigirando le manopole. Salivano le proteste: non si vede, è troppo chiaro, no è troppo scuro, non si sente bene. Un teatrino catodico, nel quale a un certo punto apparve Maria Luisa Garoppo, procace fanciulla che solleticava qualche prematura fantasia erotica in un bambino. Vendeva sigarette a Casale Monferrato e sapeva tutto di Eschilo e dei cori tragici di Sofocle. I censori di Santa Romana Rai la vestirono come una monaca per coprire il seno prosperoso. Gli anziani del quarto piano approvarono accendendo una candela alla Madonna di Pompei. Su e giù per le scale. Ma non mi mossi da casa per il matrimonio di Ranieri e Grace e recalcitravo per “Il Musichiere”, il primordiale show del sabato sera con Mario Riva e i suoi nientepopodimenoché. “Telematch” mi annoiava e il Mago Zurlì mi stava sui piccoli cabbasisi. Come quello che andava in giro per la Pianura del Po. Mago a parte, non era quella la tv dei bambini e quella dei ragazzi arrivò poco più in là. Forse tutta questa roba la avvistai a casa mia. I miei genitori si fecero due conti e ruppero gli indugi andando dal più famoso negozio di televisori di Napoli, Ressia, in via Toledo mi pare. Qualche giorno dopo arrivò lo scatolone che si animava. Era un Autovox (o un Telefunken?). Sono certo che per anni in famiglia credemmo che fosse un prodotto tedesco. Anche oggi faccio confusione. E così facemmo credere anche a quelli del piano di sotto. Quando il Geloso si scassava e loro aspettavano il tecnico, salivano su da noi. Si affermava una supremazia nel palazzo. Ma l’Autovox lo facevano in via Salaria, a Roma.

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