Non so quanto fosse alto, ma era alto come me: ero io che ero piccolina. Ercolino sempre in piedi, pupazzo gonfiabile di gomma con un piedone pieno di sabbia che lo teneva in costante equilibrio. Invidiatissimo. E non so neppure quanti formaggini Galbani mi ero mangiata, e quante mozzarelle mia madre, per arrivare all’ambitissimo pupazzo.
Cappellino “alla francese”, giacca a righe gialle e verdi sulla camicia con cravatta, un gran nasone. Orribile. Potevi prenderlo a pugni allo sfinimento, quello tornava sempre su, con quel suo sorrisetto beffardo.
Non erano anni di grandi giocattoli (io avevo avuto un gatto particolarmente lungo, per il quale venivo accusata di averlo tirato troppo, una gallina bianca che starnazzava sul balcone ma non mi risulta facesse uova, anche un coniglio, adorabile, che aveva conquistato mio padre saltandogli sulle ginocchia quando si metteva in poltrona) e in questo zoo Ercolino sempre in piedi era decisamente un fuoriclasse.

Bisogna qui considerare che io non ero una bimbetta molto ammodo, rifiutavo le gonnelline fatte dalla sarta (allora i vestiti li faceva la sarta, non Oviesse) e adoravo la tuta del benzinaio - meglio nota ormai come salopette - con cui giocavo come mi pareva, considerando anche che il mio paese non aveva ancora trovato la sua identità, tra dormitorio per gli operai delle fabbriche e orti e campi di granturco di cui devastavo volentieri il raccolto. E Ercolino sempre in piedi aveva la sua parte in commedia! Tradendo le aspettative dei suoi (grandiosi) inventori, lo avevo trasformato nel mio destriero: passavo le giornate a cavalcioni di quel riottoso ronzino che mi buttava continuamente giù.
Lui si acciaccava. Da microscopici fori un sibilo avvertiva che si stava sgonfiando: urgeva l’intervento di mio padre dottore con i suoi cerotti. Era tutto incerottato, anche perché appena potevo invitavo l’amica di sempre, Tiziana, a cavalcare con me: percorrevamo il mondo nella mia minuscola stanza affacciata sul balcone (casa di ringhiera: anche lei non aveva ancora trovato la sua identità, per metà cascina col fienile, per metà moderno edificio con la banca del paese).
Qualche volta si univa anche Margherita (quella che aveva la nonna che preparava la merenda con pane burro e zucchero: leccornia vera), e il poverino Ercolino sempre in piedi annaspava sotto il peso di tre bimbe pur minuscole che lo spronavano e cascavano e rimontavano. Finì come doveva finire: i cerotti non bastarono più.