QUEL PRIMO
APPUNTAMENTO
CI SALVÒ
LA RUOTA DI SCORTA


Corigliano Calabro*

Dopo una trattativa andata avanti per giorni, attraverso piacevoli conversazioni mediate dal telefono di casa e incontri più o meno furtivi nella palestra all’aperto del liceo (un campo incolto e brullo dove i maschi giocavano a pallone e le femmine timidamente cominciavano a parlare delle loro cose), avevamo stabilito che potevamo finalmente vederci fuori dall’orario scolastico. Verso quella ragazza, una bella ragazza con il viso dolce, occhi bruni e grosse labbra spesso umettate da una lingua sorniona, non nutrivo sentimenti particolari: mi piaceva e basta.

In quel tempo, quasi in concomitanza con la nascita dell’appuntamento, compresi che la mia età – diciotto anni appena compiuti e una patente B presa da poco - reclamava un’attenzione diversa. Così, sentendo addosso la fine della mia adolescenza, pensai che fosse arrivato il momento di cambiare un po’ di cose; e un pomeriggio comunicai a mia madre una serie di novità che riguardavano la mia vita quotidiana.


(Una pubblicità Cadonett)


Esordii dicendo che era il caso di rimodulare (lo ammetto: non usai questo verbo ma il senso era questo) le mie visite dal barbiere, perché le mie necessità stavano cambiando, i capelli corti, tagliati per bene con la riga rigorosamente a destra e tenuti insieme da abbondanti spruzzate di lacca Cadonett, erano più adatti al tempo appena trascorso che a quello meravigliosamente incerto e instabile che stavo cominciando a vivere. Non solo: le dissi che non sarei più andato alla messa domenicale e che di conseguenza avrei smesso di fare il chierichetto; e che non avrei più partecipato alla questua per la Madonna del Carmine, quindici assillanti giorni in giro per il paese e le sue frazioni a raccogliere offerte per la festività del 16 luglio, soldi utili per l’organizzazione della processione e per le necessità del parroco. Basta, mamma, le dissi convinto. E ancora, uscendo di casa, le concessi un’ultima notizia, informandola che il giorno dopo avrei preso la macchina: “Ho un appuntamento, stasera lo dico a papà”.

Mamma restò senza parole, nemmeno una; raggelò girandosi di spalle e se non ricordo male si fece il segno della croce. Poi tornò a guardarmi, apparentemente serena, come sempre, con una mappina sulla spalla utile per affrontare ogni esigenza domestica. I suoi occhi esprimevano una leggera amarezza, forse anche un poco di disorientamento e infine percepii nel suo sguardo una sorta di rassegnata - e forse orgogliosa - consapevolezza.



La patente per guidare la macchina l’avevo presa con facilità, almeno per la parte pratica, avendo fin da ragazzino avuto la possibilità di guidare la vecchia Seicento di papà (targata CS 23814) nelle strade sterrate che incorniciavano il nostro piccolo agrumeto quasi al confine con il cimitero del paese. Nei primi anni Settanta papà decise di cambiare la macchina, affidandosi a una vettura più pratica e moderna, scegliendo la A 112 della Autobianchi. La sua scelta fu dettata da un elemento che non poteva essere assolutamente trascurato: la dimensione del garage.

Il magazzino adibito al ricovero della nostra automobile, come tutte le costruzioni della parte destra della mia strada, venne realizzato incorniciandolo attorno alla roccia che costituiva l’asse portante del nostro paese, roccia che spesso veniva smussata per concedere più spazio ai bisogni umani. Anche la mia casa fu costruita intorno alla roccia e nella mia stanza papà alzò un muro alla distanza di un metro dalla timpa, per preservare l’ambiente dall’umidità ma anche per regalare all’abitazione un ripostiglio, una stagghjeta, un vano che al posto della porta aveva una tenda di stoffa beige ed era utile per conservare oggetti e vettovaglie. Il colore della tenda era uguale alle pareti della mia stanza che papà aveva pitturato personalmente, mescolando il bianco con una piccola quantità di marrone.

Il nostro garage archetipico aveva misure che non consentivano l’alloggio di qualsiasi vettura: era lungo all’incirca 3,30 metri e la larghezza era irregolare, in quanto al centro misurava un paio di metri ma l’ingresso era decisamente più stretto, all’incirca un metro e settanta. Papà fu quindi costretto a selezionare un bel po’ di automobili e infine la scelta cadde sulla Autobianchi A112 (targata CS 122718) che parcheggiata in retromarcia occupava quasi tutta la superficie pavimentata del garage.

Dopo avere informato mia madre dei cambiamenti che stavano per segnare la mia vita di diciottenne, squillò il telefono. Mamma corse a rispondere. Io ero vicino a lei. Mi guardò. Quello sguardo che avevo intravisto poco tempo prima, quel misto tra rassegnazione e orgoglio si trasformò in un leggero sorriso di complicità. “Tieni, è per te”, mi disse passandomi la cornetta del telefono.


(La pomata Tenax)


Dall’altra parte c’era la ragazza che avrei dovuto incontrare il giorno dopo. Ero contento ma non percepivo quello stato di euforia fisica tipico dell’eccitazione post adolescenziale; era una condizione nuova, un misto di curiosità e attrazione. Parlammo per qualche minuto, mia madre si era allontanata ma da quella nuova posizione poteva comodamente ascoltare ciò che dicevo.

“Allora ci vediamo domani”, dissi in conclusione a quella bella ragazza con il viso dolce e che spesso, durante le conversazioni, non so bene se per un difetto o per un vezzo, amava raddoppiare i suoi perché; in sostanza, ad ogni mia domanda che iniziava con “perché” lei rispondeva con “perché perché”, e subito dopo sorrideva, quindi si trattava probabilmente di un vezzo. E proseguii: “Passo a prenderti domani nel tardo pomeriggio, per te va bene alle sei?”. Pronunciando quella frase riuscii persino a stupirmi per l’uso di una espressione così garbata nei confronti di una ragazza. Forse, pensai, è per via di quel processo di maturazione che ho avviato poco fa mettendo in chiaro alcune questioni con mia madre.

La sera, seduto con i miei genitori per la cena, comunicai a mio padre che il giorno dopo nel tardo pomeriggio, verso le sei insomma, avrei preso la macchina perché avevo un appuntamento, senza specificare con chi. Mamma perseverò nella sua (orgogliosa) rassegnazione, essendo da me già stata edotta; papà, che stava per portare verso la bocca una polpetta al sugo infilzata con una forchetta luccicante fermò il boccone a mezz’aria e per qualche secondo – che a me parvero una eternità – rimase in silenzio. Avemmo tutti il tempo di sentire la televisione che in quel momento trasmetteva il telegiornale e proprio mentre mio padre rimaneva con la polpetta a mezz’aria il conduttore disse che proseguivano le indagini sulla uccisione di Aldo Moro, trovato morto a Roma, qualche giorno prima del mio cambio d’abito caratteriale, in una Renault 4 rossa in via Caetani, tra le sedi della Democrazia Cristiana (piazza del Gesù) e del Partito Comunista (via delle Botteghe Oscure). Mio padre riprese le sue funzioni vitali e reagì con un sorriso. E disse: “Stai attento e non tornare tardi”. Rimasi in silenzio, prigioniero di uno sconosciuto pudore.


(Una Autobianchi A 112)


Molti minuti prima delle sei del pomeriggio del giorno dopo, decisi che era l’ora di andare. Avevo impiegato una buona mezz’ora a prepararmi, lavandomi a pezzi usando l’acqua di alcune bacinelle tenute piene per riserva: a quell’ora del pomeriggio non c’era tanta acqua che usciva dai rubinetti di casa e quella che arrivava era contenuta in un flebile flusso neanche continuo, acqua fredda utile a tutto tranne che a farsi una doccia. Aggiustai i capelli con le mani, senza usare il pettine né tanto meno la lacca. Anzi, dietro suggerimento di un amico un poco più grande di me misi sui capelli un po’ di pomata Tenax. Non era più il tempo della Cadonett. Presi le chiavi della macchina che papà aveva lasciato accanto alla macchina del gas. Arrivato al garage e aperta la pesante porta salii in macchina e uscii. Mamma, notai dallo specchietto retrovisore dell’auto, seguiva dal terrazzino. Fuori un gruppetto di ragazzini curiosi, perfino stupiti di vedermi in una macchina, si dispose disordinatamente ai lati della 112, come per salutarmi. Ero in netto anticipo rispetto all’orario dell’appuntamento, partii, senza patemi. Pensavo all’incontro ma soprattutto ero concentrato a non investire gli uomini radunati in piazza e mi tenni ben distante dalle altre macchine parcheggiate disordinatamente ai lati delle strade. Ero bravo e disinvolto nella guida ma era la prima volta che usavo la macchina nel paese. La mia condotta, non avevo dubbi, era irreprensibile.

Poi, ad un tratto, un colpo di scena, un piccolo imprevisto che stava per cambiare il corso di quel primo appuntamento. Avvertii che la macchina aveva un problema sul fianco destro; non pensai alla causa ma subito mi fermai e andai a verificare. Una ruota era meno gonfia delle altre. Per evitare problemi, feci inversione di marcia e tornai verso casa. Mamma era ancora sul terrazzino, i bambini prima schierati giocavano a rincorrersi mentre mio padre sistemava la merce esposta in vista della chiusura serale. Mi fermai e spiegai il problema a papà. Proprio in quel momento passava da quelle parti un giovanotto del rione che lavorava in un’officina meccanica. Si offrì di aiutarci e papà accettò volentieri. Il ragazzo dette un’occhiata veloce e capì ciò che tutti lì intorno avevamo capito: la ruota era sgonfia. Cercare i motivi lì e a quell’ora era impossibile così prese la ruota di scorta e in meno di cinque minuti risolse il problema. Vidi i miei genitori tirare un paio di sospiri (profondi) di sollievo: una ruota non poteva fermare il mio primo appuntamento, l’addio all’adolescenza, il timido e inevitabile cominciamento della mia gioventù.


* i racconti di Giuseppe Casciaro sono anche pubblicati ogni giovedì, fino al 28 agosto, nel supplemento estate del Quotidiano del Sud

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