L’officina dei Papiri Ercolanesi alla Biblioteca Nazionale di Napoli, prima che diventasse un Centro di ricerca internazionale tecnologicamente avanzato, era uno stanzone con lucernario luminoso (nei giorni di sole), dove si aggiravano alcuni illustri studiosi e un piccolo manipolo di ricercatori in formazione, con borse di studio. Io ero uno di loro, appena trapiantato dalla mia Salerno nella capitale del Regno. Come una sorta di bibliotecario, tre mattine alla settimana prendevo le chiavi dell’Officina e salivo dai giardini di Palazzo Reale in piazza Plebiscito al terzo piano della Biblioteca, attraverso corridoi oscuri un po’ paurosi, file interminabili di scaffali con libri antichi e polverosi, stanzoni bui con mappamondi giganteschi e improbabili bibliotecari sepolti in loco da tempo immemorabile, come da contratto, fino ad arrivare alla stanza del lucernario.

E lì un po’ si studiava, un po’ si dormiva. Ogni tanto c’erano turisti o studiosi in visita. Un giorno di fine estate capitò a illuminare lo stanzone una piccola équipe di ragazze svedesi, non ricordo da quale università, col proprio professore interessato ai papiri. Io e un mio collega facemmo da guida, sfoggiando un passabile inglese e soprattutto una piacioneria tipicamente meridionale. Ma la cosa non si fermò lì, perché le ragazze erano ospiti di uno studentato a Portici e il giorno dopo ci fiondammo a salutarle, proponendo una gita meno papirologica a Napoli. Accettarono in tre, ricordo veramente carine. Appuntamento a Mergellina la mattina dopo. Qualche minuto prima dell’appuntamento - io ero già lì con guida di Napoli nello zainetto e una testa piena di proposte e fantasie - il mio collega mi telefona che non riesce a venire. Mi ritrovo con tre ragazze svedesi da mito maschile in pieno lungomare, senza saper più cosa fare. Il percorso fino alla villa comunale e anche dopo fu un susseguirsi di motorini dai quali ben scafati buontemponi urlavano complimenti irriferibili. Per fortuna non accadde nulla, ma io non ebbi la forza di azzardare più nulla. Le salutai abbastanza presto, inventandomi non so quale impegno e indicando la maniera più rapida e indolore di raggiungere lo studentato. Era il settembre 1969, mi pare di ricordare, appena un anno dopo il 1968. Napoli non era ancora meta di Erasmus e di turismo, tante cose non erano ancora o non erano più, ma soprattutto io non ero pronto a vivere avventure. E, come in una striscia di Jules Feiffer, non vedevo l’ora di raccontarlo agli amici salernitani.