C’è nel Manifesto di Ventotene firmato da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, testimonianza di un’epoca di ferro e fuoco e delle robuste ali di un sogno ancora vivo, un mucchietto di parole quasi nascosto, forse perché meno utile a essere speso nella cagnara polemica in cui amiamo sguazzare, a Montecitorio e nelle insopportabili piazze televisive. La frase è la seguente: “Contro il dogmatismo autoritario, si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito, doveva dare ragione di sé o scomparire”.
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DEL 25 APRILE
DEL 25 APRILE
Era il discrimine della decenza, della logica, del rispetto dei fatti storici, del buonsenso perfino, da rimettere al centro del villaggio dopo la sventura del regime fascista, laureatosi in indegnità davanti al mondo con le antiscientifiche e vessatorie leggi razziali e precipitato nel baratro repubblichino: la Morte che abbracciava i vivi per trascinarli con sé dopo una guerra d’aggressione perduta e pure contrappuntata dal sacrificio, prima e dopo l’8 settembre, alla faccia dei gerarchi e del Buce (copyright Carlo Emilio Gadda) che infamava i nostri soldati dopo averli spesi su una moltitudine insostenibile di fronti, confidando nel rullo della Wehrmacht e nella pax nazista dall’Atlantico al Pacifico. Un segno di abiezione, quella di cui si era fregiato il generale Graziani, gasatore degli etiopi. Ma sì, oggi ripugna il solo accennare all’onore militare e all’amor di Patria, ma sono i giorni giusti per ricordare anche i nostri martiri in divisa a Cefalonia e Corfù.

Peggio del partecipare a una guerra è perderla. E questa è geopolitica-base, con le sue durezze, il mondo com’è e non come vorremmo che fosse. Il fronte ampio della Resistenza, redentore della nostra bandiera, promessa di uno Stato costituzionale, fu concerto per quanto possibile armonioso tra assetti politici e ideologici che più distanti non si poteva. Tra “aristocrazia azionista”, socialisti, comunisti gonfi di coraggio e devozione al faro staliniano (al punto da esser più che tiepidi sull’italianità di Trieste, in nome dell’internazionalismo proletario rappresentato da Tito; ma ricordiamoci che la repubblica di Salò nel settembre del ’43 aveva ceduto ai nazisti diverse terre italiane di frontiera, Fiume, Udine e, appunto, Trieste: la Storia ammaestra e sorprende). E poi reparti militari fedeli ai Savoia Carignano, (inqualificabile dinastia), soldati sbandati, repubblicani, liberali e cattolici al Nord ramificati e all’erta nell’opposizione coltivata tra curie e parrocchie. Un minimo comune denominatore: “mai più”. Basta bugie di regime e campi di concentramento - Risiera di San Sabba, Fossoli, Ferramonti nel Cosentino, Borgo San Dalmazzo nel Cuneese, Bolzano - e sporcizia sotto i tappeti.
In certa vulgata nostalgica post-bellica, oggi le chiameremmo fake news, circolava la battuta sul Mussolini appeso a piazzale Loreto (abyssus abyssum invocat: nel medesimo luogo erano stati trucidati nell’agosto ’44 dalla Legione Muti quindici partigiani) e dalle cui tasche non era caduto un centesimo, quasi un novello Cesare nell’orazione a cadavere caldo di Marco Antonio. Quando invece la corruzione era uno dei cementi del regime. Anche questo “mai più”, volevano i Padri Resistenti, insieme anche per il logico convincimento, già in nuce europeo, che non si dà prosperità autentica senza una cornice di leggi valide per tutti. Certezza del diritto, libertà spirituale e dal bisogno, fiorire dei commerci. Avevamo uomini, nell’aprile ’45, di sguardo lungo. Avevamo un Enrico Mattei, pensava in grande, ci vedeva perno di buona economia non depredatoria delle risorse energetiche nel Mediterraneo: fu spazzato via nel ‘62 in un attentato terroristico “benedetto” dall’oligopolio delle Sette Sorelle petrolifere. Tra i primi di una lunga serie nella nostra marca statunitense, il protettorato germinato dalla guerra persa.

A ottant’anni dalla Liberazione qual è la temperatura del nostro spirito critico? Siamo un Paese a medio-alta caratura manifatturiera e con un sistema scolastico dai vari collassi educativi, spaccato in due, a povertà crescente, segnato da emigrazione giovanile verso salari più alti, funestato dalla burocrazia, nemica mortale che, spesso non dando “ragione di sé”, dovrebbe scomparire e invece permane, prolifera, impania, fregandosene di ogni sussidiarietà. E da mezze verità o piene bugie che abitano un ceto politico ex missino maturato nella conventio ad excludendum ma ora provvisto di pieni poteri che intende incrementare in nome del popolo, spacciando maneggi irricevibili alla Costituzione e lesioni all’equilibrio dei poteri per efficienza e governabilità.
Il “valore permanente dello spirito critico”, minimo sindacale di una democrazia funzionante, mostra ancora per fortuna una vivace avversità nei confronti di vecchi istinti restauratori, che trovano sfogo, ad esempio, nel campo della disciplina storica (materia non malleabile a piacimento) e nei programmi del ministro dell’Istruzione. Per quanti anni, nel silenzio imbarazzato dell’allora Pci, a destra si è sfruttata la tragedia delle foibe in chiave antiresistenziale? Come se i massacri di italiani a opera dei titini non avessero avuto le fondamenta nella repressione fascista degli slavi. La vera concordia del 25 Aprile, l’armonia dei cuori, può darsi solo nel massimo della verità umanamente possibile.
Nel Ventennio una semplice parola era difficilmente pronunciabile: “no”. Alcuni ci riuscirono, molti di più non ce la fecero, per i più svariati motivi, e silenziarono il loro spirito critico, ammesso che potesse essere presente, negli anni del consenso di massa al fascismo. Ci siamo ripresi la libertà di parola, dobbiamo averne cura, difenderne il buon uso, pratica aliena ai polemicanti in stile Gasparri, gente che apparenta il rispetto di una data di resurrezione democratica e preludio al forte rinnovamento innervato dalla Costituzione a una provocazione divisiva in nome dell’odio di classe. E lasciamo stare la “sobrietà” invocata da un altro ministro per le manifestazioni del 25 Aprile, contemporanee al lutto nazionale (cinque giorni!) per la morte di papa Francesco, sono poveri detriti di mentalità che vedono in qualsiasi espressione e presenza di popolo una minaccia alla legge e all’ordine.

Discernere, mantenere fede al patto dello spirito repubblicano scolpito nella Carta. Oggi, con certe figure a spasso per la Casa Bianca e al Cremlino, distinguere realtà e finzione, nella nebbia disinformativa delle guerre e nelle manipolazioni dei social, è una forma tutta europea di nuova resistenza vitale come l’aria. Secondo Hannah Arendt, il suddito ideale di un regime autoritario è “l’individuo per il quale la distinzione fra vero e falso, non esiste più”. A che punto è la notte?