Quando in cartellone c’è lei, la prima cosa che ti chiedi è: verrà davvero? Negli ultimi anni, per motivi di salute, e qualcosa a cavallo tra l’imprevedibilità e l’indisponibilità emotiva, alcune esibizioni sono state cancellate. A Roma mancava da un po’. E invece sì, Martha Argerich, la leggenda del pianoforte, stavolta è venuta, ed è stato l’ennesimo trionfo: tre serate all’Auditorium, con l’orchestra nazionale e il coro di Santa Cecilia per un sontuoso finale di stagione tutto dedicato a Beethoven, concerto numero due per pianoforte e orchestra, da sempre cavallo di battaglia della Argerich, e seguito di Nona sinfonia, di cui ricorrono i duecento anni dalla prima esecuzione in quel di Vienna. Allora, alla prima, c’era proprio Ludwig a dirigerla, con non poche difficoltà, visto che ormai il nostro era completamente sordo. Ma qualche sera fa l’attesa era tutta per lei, questa pianista dal fascino inarrivabile che l’età ormai avanzata non solo non ha scalfito, ma se possibile incrementato. I suoi lunghi capelli grigi, il viso più scavato, un’andatura un po’ sofferente, Martha si è presentata ripetendo un vecchio copione: è entrata e si è slanciata sul pianoforte come fosse un’ancora di salvezza, come se tutto il resto che ha intorno, orchestra, direttore, primo violino e pubblico non esistessero più nel momento in cui siede davanti al suo oggetto d’amore e di tormento.

Si dirà: da sempre la Argerich è una beniamina di Santa Cecilia (prima esibizione nel 1979) ed è impossibile anche per un’artista così famosa e amata non sentire l’incredibile calore del pubblico che si rinnova. In effetti c’è stato qualcosa di più dell’applauso che si riserva ai grandi solisti, al suo ingresso si è sentita un’ovazione da stadio di tutta la sala piena in ogni ordine di posti, cosa che non accade per nessuno. Ma il tempo che passa dall’arrivo sul palco con i saluti di rito alla prima nota sul pianoforte si capisce che per lei è inessenziale, o forse persino un interminabile tormento che rischia di turbare la sua concentrazione. In questa occasione ha dovuto aspettare molto, prima perché il concerto è iniziato in ritardo a causa della manifestazione dei tifosi della Lazio contro il presidente Lotito che ha paralizzato il traffico proprio davanti all’Auditorium (Roma non si fa mancare mai niente), sia perché una volta entrata in scena l’ovazione è stata lunga, e infine perchè il secondo concerto beethoveniano prevede una ampia introduzione orchestrale. Poi il tocco è arrivato e l’universo di Martha si è dischiuso: fatto di energia primordiale, personalità prorompente, agilità, calore, originalità, tutte le qualità che sono cresciute nel tempo ma che l’hanno accompagnata fin da bambina, quando in Argentina rivelò il suo straordinario talento.

In quel momento, l’altra sera, dietro al suo aspetto di donna ormai matura e affaticata, si è rivista l’artista senza tempo, immortalata col suo viso bellissimo nelle copertine dei dischi accanto ai più grandi direttori degli ultimi decenni. L’emozione si è rinnovata puntualmente ed era palpabile nel pubblico. Forse ancora di più di altre volte. Non ha deluso le attese. E infatti alla fine del terzo movimento, un Rondò che diventa Molto Allegro, capolavoro di agilità reso alla perfezione dalla Argerich, le cose sono andate come si era capito fin dalla prima nota: il pubblico è esploso in una ovazione liberatoria, prima di alzarsi in piedi, cosa anche questa che succede raramente, per tenere inchiodata al palcoscenico la sua beniamina. È accaduto ciò che avviene da molti anni: Martha Argerich non vuole più suonare da sola, vuole qualcuno accanto a lei, che sia un’orchestra o il direttore stesso. Il giovane Lahav Shani, un giovanissimo e bravissimo israeliano pupillo di Baremboim, a sua volta grande amico di Martha con cui si è spesso esibito, si è seduto accanto a lei per un bis, un brano di Ravel. Il pubblico ne vorrebbe sempre ascoltare tanti, per non interrompere l’emozione, ma la Argerich, almeno in questo caso, ha concesso solo quello. Si è chinata a firmare un autografo a una bambina scatenata che le saltellava sotto il palco, mentre l’orchestra batteva i piedi, che è il modo in cui i professori dell’orchestra applaudono il solista che si è esibito. Si è allontanata salutando il pubblico in piedi ed è sembrata provata, forse persino con un’ombra di svagata tristezza sul viso, come se un’esecuzione fantastica e l’incredibile calore del pubblico non fossero sufficienti a dissipare lo spettro che aleggia in ogni grande solista sul finire della carriera: quanta forza avrò ancora per un concerto così?

La stessa domanda che molti spettatori, sottovoce, si sono fatti: torneremo a sentirla? Un’impressione non dovuta solo all’età o i problemi di salute (che pure ci sono stati negli anni scorsi con la comparsa di un tumore e di una recidiva), ma alla particolare sofferenza che la stessa Argerich non ha mai nascosto in più occasioni prima di esibirsi. Artista estroversa, di grande carattere, è stata via via considerata dai critici una interprete geniale, temperamentale, squisita, ma anche imprevedibile, come la sua vita e le sue relazioni (tre matrimoni), il rapporto con le figlie, una delle quali ha prodotto uno straordinario film sulla madre (“Bloody Daughter” del 2013) e che spiega bene il rapporto meraviglioso e terribile che la grande pianista ha sviluppato con il suo strumento. “Stasera non voglio suonare, non posso, non posso, non mi va”, si sente la sua voce dietro le quinte di una sala da concerto. Oppure “quando i pianoforti non mi amano io non li suono”. Eppure, tutte le volte che sul palcoscenico è entrata, e lo strumento lo ha suonato, il pubblico è rimasto estasiato. Questa difficoltà, che è stata ed è di molti solisti, lei non la ha mai nascosta, talvolta l’ha resa plateale, ha rinunciato alle esibizioni, anche se quasi sempre è avvenuto per reali motivi di salute. In passato, quando la sua fama era già all’apice, per tre anni non ha mai più fatto un concerto, evento che per altri solisti sarebbe stato esiziale. Ma lei è tornata, vincendo la malattia e se stessa.

Non si può capire facilmente lo stress e la pressione che esercitano su un grande artista decenni di esibizioni sui grandi palcoscenici del mondo, dove ogni volta il pubblico si aspetta magia e perfezione. Dietro alla apparente facilità con cui i grandi solisti affrontano le partiture più difficili, non c’è solo il talento innato, c’è uno studio continuo e ossessivo, battuta per battuta, degli spartiti. Da bambini, fino alla tarda età. Lo strumento diventa un despota, se ci si deve esibire, perché non ci può essere routine o semplice abilità ginnica dietro ogni esecuzione. Ad esempio Glenn Gould, un’altra leggenda del pianoforte, smise subito di esibirsi. Martha Argerich si può dire che suoni in pubblico da più di settanta anni. Da quando era una bambina prodigio in Argentina e ottenne l’aiuto di Juan Peron: “Cosa posso fare per te?”, le chiese il presidente argentino, e lei rispose senza esitazioni: voglio andare a studiare a Vienna, con Friedrich Gulda (straordinario pianista e insegnante, ndr). Di questi settanta anni, sessanta, ossia da quando vinse il prestigioso Concorso Chopin nel 1965, li ha vissuti nel Gotha dei grandi pianisti, con un repertorio molto più ampio di molti suoi colleghi. Non ci si può meravigliare che lei non voglia più “suonare da sola” il pianoforte: nel senso che vuole farlo a quattro mani (ad esempio con il grande Daniel Baremboim, anche lui argentino), in quartetto oppure con orchestre grandi o piccole. “Amo suonare il pianoforte, ma non mi piace essere una pianista, anche se è più o meno l’unica cosa che so fare”. Tutto questo lo spettatore lo sente, l’altra sera più di altre volte. Solo che quando si sente la sua mano sul pianoforte sembra impossibile l’idea che un giorno lei smetta davvero di suonare. Una parola bisogna dirla sull’orchestra e il coro di Santa Cecilia, ormai due eccellenze italiane che sono entrate nel novero delle migliori compagini europee, come si è sentito anche l’altra sera con un’ottima Nona. L’era Pappano, un direttore che ha dato molto, è finita, inizia quella di Daniel Harding. Preservare il futuro e la qualità di questa istituzione sarebbe già un bel programma culturale.