OGGETTI
D'EVASIONE
LA VITA
NEL CARCERE

Il carcere non è solo limitazione della libertà personale, il luogo dove scontare una pena anche ingiusta (succede pure questo), ma se equa capace di consentire il recupero di chi ha sbagliato, anche se non sempre va così. Il carcere è un luogo in cui chi entra deve cercare di impegnarsi a costruire una nuova identità, perché quella passata rimane oltre i cancelli, fuori. Quando entri in una cella il primo giorno, nulla ti rimane della quotidianità passata.

Non ci sono gli spazi d’azione, in pochi metri si soffoca anche se non fa caldo. Bbisogna riprendere le misure per muoversi ma non c’è, e si vedrà che non è una cosa di poco conto, neanche il portarotolo per la carta igienica. Non ci sono gli strumenti per cucinare, la grattugia per il formaggio insieme a tutta una serie di altri oggetti usati da ognuno di noi tutti i giorni per abitudine, senza farci caso finchè sono disponibili, ma una volta che vengono a mancare, vietati da un regolamento incomprensibile, diventano indispensabili per sopravvivere nel concreto, per salvare la mente, per riuscire ad ingannare il tempo. Magari lavorando a maglia (i ferri da calza però sono vietati, la penna biro invece no ed allora ci si arrangia).


(Forno artigianale, di Matteo Zufranio)


L’uncinetto, proibito anch’esso, può essere sostituito dal rebbio di una forchetta di plastica piegato alla bisogna. Il mattarello per stendere la pasta, anche quella un ricordo che aiuta a non dimenticare la casa e la famiglia, diventa concreto, una possibilità, usando il cilindro su cui è avvolta la pellicola o la carta argentata. Dello stesso genere gli stampini per i ravioli fatti usando i tappi di plastica, oppure un complesso forno realizzato assemblando fornello a gas, pentole, coperchi e fogli di alluminio. Per cuocere una pizza con questo attrezzo ci vogliono venti minuti. Per fare la grattugia o una mezzaluna diventano insostituibili le scatolette del tonno, che servono anche per costruire la rotella per la pasta e i coltelli. E tornando al portarotolo: non è un lusso ma è indispensabile, specialmente se devi fare i conti con un wc alla turca. Così come non si può fare a meno di un posacenere. Specialmente se dormi al piano di sopra di un letto a castello.


(Grattugia, di Umberto Spinelli)


44 oggetti - che dimostrano innanzitutto il desiderio non nascosto di non perdere umanità e abitudini assemblando cose di cui si potrebbe disporre nel più semplice dei modi, comprandole, facendosele portare dai familiari, ma proibiti da regole di cui si fa fatica a riconoscere la genesi - costruiti dai detenuti del carcere di Bollate per rispondere a necessità diventate di colpo primarie, saranno in mostra, nell’ambito della settimana milanese del design, dal 15 aprile alle 15 fino al 21 alla Fabbrica del Vapore in via Procaccini 4 e poi saranno trasferiti al Consorzio Viale dei mille all’1 di quella strada.


(Macchinetta per tatuaggi, di Artur Zahtur)


Molte di queste cose quotidiane sono diventate vitali per superare l’angoscia e la solitudine che tra le sbarre sono compagne certe dei più deboli, dei più indifesi, degli emarginati. Ma in mostra ci sono anche pupazzetti, gattini, cigni, braccialetti, portafortuna. Esprimono la voglia di un’affettività che è lontana, la memoria da non smarrire di un affetto. La nostalgia anche di sé. C’è tra gli altri oggetti uno specchio piccolo, in cui si vede solo la faccia. In carcere non ci sono specchi grandi. Il corpo scompare. Diventa sconosciuto. C'è anche un ingegnoso attrezzo per tatuaggi fatto con un motorino da rasoio, una penna e un ago, però è stato sequestrato.


(Portacenere, di Maila Conti)


Le opere in mostra sono state individuate e raccolte dal gruppo di lavoro di “carteBollate”, un bimestrale diretto da Susanna Ripamonti cui collaborano detenuti, giornalisti ed esperti di comunicazione, che parla delle e alle persone detenute nel secondo carcere milanese in coordinamento con gli studenti della Naba, la Nuova accademia di belle arti. I designer-detenuti sono Alessio Arolfo, Artur Zavtur, Diego Frigerio, Franco Patamia, Gianluca Dercenno, Giuseppe Affinito, Giuseppe Poerio, Luciano Luongo, Maila Conti, Matteo Cagnoni, Matteo Zufrano, Michele Picierno, Natale Corleo, Salvatore Abate, Salvatore Iacono, Umberto Spinelli. Sono loro le didascalie che accompagnano le opere. E in quelle righe c’è tutto il loro mondo.


(Portarotolo, di Salvatore Iacono)


“Oggetti d’evasione” si intitola la mostra, che è stata curata da Alessandro Guerriero con il supporto teorico di Susanna Ripamonti per uno sguardo antropologico, di Giacomo Ghidelli per una lettura filosofica e di Claudia Balottari per una prospettiva psicologica dell’iniziativa; la ricerca iconografica è stata di Federica Neef, le fotografie di Alessandro Menegaz, il progetto di allestimento di Lorenzo Coppola e la grafica di Alessandro Petrini in collaborazione con i docenti e i ragazzi del biennio specialistico in social design del Naba. L'esposizione apre le porte e le menti. Servirà a creare un’altra occasione di dialogo con il carcere più all’avanguardia del Paese che fin dall’inizio, era il 2000, ha affrontato con gli illuminati direttori che si sono succeduti - oggi è Giorgio Leggieri - l’impegno per dare sì che la detenzione non sia solo espiazione della pena ma dia anche possibilità di recupero, consenta nel migliore dei modi la ricerca di un nuovo equilibrio, di una nuova vita innanzitutto attraverso la responsabilizzazione.


(Rotella, di Franco Patamia)


Bollate è un carcere particolare, in un universo che appare allarmante nella maggior parte delle realtà, con molti più spazi di libertà, cosa che si traduce anche nella riduzione dei costi per la sorveglianza. Ed un maggior recupero. I detenuti sono circa 1300, di cui un centinaio donne. Duecento ogni giorno escono dal carcere per andare al lavoro all’esterno (in tutta Italia sono poco più di duemila) circa la metà detenuti è impegnata. Un dato molto positivo, è dimostrata l’importanza del lavoro sia dentro il carcere che fuori in un percorso positivo che non porti a delinquere ancora. Una ricerca recente conferma che circa il 70 per cento dei detenuti non impegnati tende a reiterare i reati, rispetto all’1 per cento di chi invece è stato inserito in un tessuto produttivo.



A Bollate c’è anche un ristorante aperto regolarmente al pubblico sia a mezzogiorno che di sera. A “in Galera” lavorano i detenuti, che imparano così un mestiere sotto la guida di uno chef professionista. L’accesso al ristorante è facilitato da steward che accolgono gli ospiti nella guardiola. Non è necessario lasciare documenti all’ingresso né depositare oggetti personali. C’è anche un comodo parcheggio.

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