21 agosto 2023

GROPPELLO DI REVÒ
EROICI VITIGNI
FRA LE MELE IN VAL DI NON

di NEREO PEDERZOLLI (foto di Marco Simonini)



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Le vigne nella valle delle mele. Non è una provocazione, ma il progetto di recuperare antiche pratiche vitivinicole lungo le sponde del torrente Noce, il flusso d’acqua che sgorga dalla val di Sole e solca tutta la val di Non. Dove la frutticoltura è intensiva solo da mezzo secolo. Prima tutto l’areale era vitato. Coltivato con varietà quasi scomparse, nonostante già nel 1899 in questa zona fosse attiva una cantina sociale, la prima tra le Dolomiti. Tutelava la fatica, l’ardire di viticoltori che con il vino cercavano sollievo, alcolico e soprattutto economico, per battere la fame endemica di una vita grama di gente montanara, in un Trentino (allora provincia asburgica) dove nulla era affascinante.

Viticoltura per certi versi eroica, vino scambiato con forniture di sale di Salisburgo, in uno scambio che somigliava ad un baratto. Alone misterioso e per certi versi mistico. Che in queste ultime stagioni viene in qualche modo recuperato. Merito di uno sparuto gruppo di vignaioli nonesi, quelli che stanno arditamente difendendo microscopici appezzamenti vitati, situati prevalentemente sulle sponde del lago di Santa Giustina, sotto il castello di Cles che troneggia e si erge come baluardo identitario. È la forma più sincera di difesa del concetto di ‘vino da vite autoctona’. Che in val di Non ha un nome identico, preciso, per il vino e del vitigno stesso: Groppello di Revò.


(Lorenzo Zadra - foto di Marco Simonini)


Autoctono in quanto è forse uno dei rari vitigni che non ha specifici legami genetici. Deriva, lontanamente, da un progenitore chiamato Rèze, varietà originaria del Cantone Vallese, in Svizzera, chissà quando e come s’è insediato nei terreni nonesi, ancestrale ambito dei Reti. Ecco perché il Groppello di Revò è un simbolo di biodiversità e un piccolo baluardo nella cultura autoctona. In un'epoca in cui la perdita di identità culturale è rappresentata da una vera e propria amnesia collettiva delle tradizioni agricole ed alimentari, evocare una viticoltura che è ormai scomparsa significa far capire al lettore che produrre vino non è soltanto un “affaire” che coinvolge tecniche di produzione e strumenti di marketing, ma si identifica con il paesaggio, con gli edifici, con le strade, in un progetto piantato dentro la società dominata dai modelli antropologici del “villaggio globale”. Molti territori di antica viticoltura cercano di sfuggire da un lato ai danni del gusto omologato che conduce alla perdita di identità di molti vini “senza anima” e dall’altro allo stile “pseudo regionalista”, sterile copia di un passato ormai compiuto.

Ai consumatori è stata data in questi anni la possibilità di accedere ad un numero, un tempo impensabile, di etichette ma a ciò non ha corrisposto la nascita di nuovi linguaggi del vino capaci di comunicare con efficacia ad un mondo che non conosce i valori delle nostre civiltà, i contenuti non solo organolettici di una bottiglia ma anche l’immaginario che da essa si sprigiona quando viene assaggiata. I vini dalle caratteristiche sensoriali che si discostano da quelle normate dai modelli gustativi delle riviste americane, anche se carichi di storia, sono ignorati dal grande pubblico, rimangono nell’ombra, vivono la loro storia più confinata e pittoresca. Bisognerebbe invece riscoprire il genius loci dei territori dove il vitigno autoctono è sovrano incontrastato e il vino è linguaggio di civiltà con il suo universo di saperi e codici simbolici, con la sua folla di nomi spesso incomprensibili.


(Il vigneto storico Zadra di Groppello di Revò, sullo sfondo del lago di santa Giustina - foto di Marco Simonini)


Nella borgata di Revò, comune di Novella, in piena val di Non, una ventina di aziende hanno dunque recentemente proposto esempi di viticoltura eroica, con il vitigno di casa a caratterizzare ogni confronto enologico, tra convegni e altrettante degustazioni. Tra i cultori del Groppello di Revò - è importante il legame con il luogo, perché solo quello di Revò si distingue tra la vasta famiglia dei Groppello - troviamo la famiglia di Lorenzo Zadra, figlio di Augusto, compianto temerario quanto istrionico vignaiolo, il vero ‘custode del Groppello noneso’, personaggio soprannominato ‘el Zeremia’. È stato lui a insegnare al figlio Lorenzo le fondamentali tecniche colturali, salvando dall’estinzione ceppi di viti ultrasecolari, piante che scandiscono l’habitat di Revò e consentono di bere uno spaccato di storia. Dal passato, mirando al futuro.

Di questi vitigni si ricorda spesso solo il nome perché curioso, vernacolare: abbiamo ormai dimenticato, a distanza di pochi anni, le sensazioni gustative di un prodotto lavorato con tecniche enologiche non coerenti con le caratteristiche del vitigno e la località sperduta dove sono coltivati. Vanno perciò rispettate le scelte enoiche operate da giovani come Lorenzo Zadra. Per scardinare una comunicazione che preferisce tipologie di vini “perfetti”, ma senza anima e che non sanno operare l’ “elogio dell’imperfezione”, imperfezione che non è difetto e che spesso è alla base di un vino controcorrente, di un vino innovativo, in quanto sinceramente diverso. Che stimola la fantasia e soddisfa i buoni pensieri, non solo le sensazioni gusto/olfattive. Senza forzare il concetto di tradizione. A chi invoca il ritorno della tradizione nella produzione di vino si può invece rispondere che il modo più efficace per attuarla è quello di un suo “tradimento fedele”. Incentivando la ricerca genetica, rispettando colture viticole che generano culture territoriali. Come in val di Non, seppur tra le mele.







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