MILANO INTERNAZIONALE
REPUBBLICA BAUSCIA

In una recente intervista a Repubblica Milano, Irene Tinagli – parlamentare europea del PD – ha detto: “È sempre un errore mischiare vicende giudiziarie e scelte politiche. Un conto è indagare su eventuali illeciti, altro è mettere sotto accusa un modello di crescita che ha trasformato Milano in una città internazionale”. Prima di lei era già intervenuto Carlo Ratti, docente al MIT di Boston e curatore dell’attuale Biennale di Architettura di Venezia, che alla Stampa aveva dichiarato: “Milano è rinata, non deve scusarsi. È l’unica città italiana veramente globale”.

Sull’internazionalità di Milano sono stati scritti fiumi di inchiostro. I milanesi si pensano in competizione con le grandi capitali del mondo occidentale almeno dal 1881, quando per la prima volta organizzarono un’esposizione universale al pari delle città di Londra, Parigi, New York, Philadelphia, Chicago. La megalomania meneghina sembrava aver raggiunto il suo apice nel 1906, anno della seconda esposizione universale, quella dell’inaugurazione del traforo del Sempione che presentò la città al mondo nella nuova veste di capitale industriale italiana. Ma nulla fu a confronto della grandeur celebrata con la terza esposizione, quella del 2015, in cui divenne evidente anche ai più distratti il legame profondo che lega il milanese all’aggettivo bauscia (il fanfarone sbruffone).

Se prima la città si inorgogliva nel tributo scritto da Lucio Dalla nel 1978 con quell’incipit “Milano vicino all’Europa” e si inteneriva per le amorevoli parole di “Milano e Vincenzo” di un Alberto Fortis, inno alla Milano che lavora e accoglie in antitesi a una Roma decadente e ruffiana, con l’Expo 2015 si è passata ogni misura.

La celebrazione è diventata autocelebrazione e Milano si è proclamata capitale mondiale di qualunque cosa: dal cibo al design, dalla moda alla ricerca, dall’università all’impresa, pure del volontariato, della sostenibilità e, ahinoi, dello sviluppo urbano. Eserciti di commentatori entusiasti hanno speso parole importanti per costruire l’immagine di una città forse anche piccola di dimensioni, poco meno di un milione e quattrocentomila abitanti, ma enorme nel cuore e nelle capacità. L’anomalia milanese, quel suo essere una città medio/piccola capace però di muoversi in alcuni campi su reti lunghissime, ha finito col perdere significato e tradursi in una grande e inutile sequela di bugie, dati esagerati e primati assai dubbi.

La complessità di Milano e la sua particolarissima natura internazionale intrigano da sempre gli studiosi. Molti anni fa, in occasione della presentazione di uno dei progetti milanesi mai decollati – il masterplan per la Bovisa promosso da EuroMilano spa – chi scrive approfittò della presenza di Rem Koolhaas – tra i maggiori teorici dell’architettura e dell’urbanistica e autore con suo studio OMA del piano – per approfondire l’argomento Milano. Era la fine del 2008, in città stavano per partire i grandi progetti di trasformazione urbana, l’assegnazione dell’Expo 2015 era appena stata vinta e alla domanda “Possiamo definire Milano una città internazionale?” Koolhaas fece un sorriso sorpreso e rispose scuotendo la testa: “Milano è solo una piccola città con la capacità di costruire reti molto lunghe in alcuni settori. E per questo può fare cose straordinarie. Pensiamo alla bellezza. Almeno il cinquanta per cento, forse anche il settanta, di ciò che di bello viene prodotto nel mondo ha in qualche modo a che fare con Milano. O perché è disegnato o prodotto qui, o perché contiene parti concepite qui o perché chi l’ha creato si è formato qui”.

Un’attitudine straordinaria, una particolarità su cui lavorare per rendere questa unicità un punto di forza in un mondo sempre più complesso e globale, si direbbe. Invece no. Questa Milano ha scelto l’appiattimento più banale sulla retorica della globalizzazione confondendo la ricchezza della dimensione operativa internazionale con la banalità della presenza stanziale di stranieri in città. Peraltro solo in parte attratti da ciò che si può fare a Milano (tipo studiare e lavorare) e molto dalla flat tax per i super ricchi stranieri introdotta dal governo Renzi (200mila euro all’anno per i redditi esteri dal 2024, 100mila euro per chi è arrivato prima più 25mila euro per ogni familiare).

Come si dice in città, “Milano conferma il suo ruolo di capitale europea del real estate di lusso”. E il Giorno lo scorso luglio così titolava: “Milano, una città per ricchi e super ricchi: in 10 anni sono cresciuti del 24%. La città conta oggi 115.000 milionari e 17 miliardari, posizionandosi all’undicesimo posto mondiale della speciale classifica”. I diciassette miliardari sono in realtà milanesissimi e le loro fortune sono antiche, non certo dipendenti dal modello Milano. Si chiamano Giorgio Armani, Massimiliana Landini Aleotti (Menarini), Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, gli eredi Del Vecchio (Luxottica), Gianfelice e Paolo Rocca (Techint e Humanitas), Luca e Alessandra Garavoglia (Campari), Remo Ruffini (Moncler), Susan Carol Holland (Amplifon), i Berlusconi, i Doris (Mediolanum), Massimo Moratti, le Caprotti (Esselunga).

Tra i paperoni normali pare siano invece molti i ricchi residenti a Londra scappati dopo la Brexit, altri europei, soprattutto francesi e svizzeri, e poi cittadini facoltosi dal Sudamerica e dal Medioriente. Secondo uno studio della società britannica Henley&Partners, specializzata nella consulenza per la migrazione di investimenti, nel 2024 l’Italia, e Milano in particolare, è stata alla testa della classifica delle destinazioni per milionari che desiderano trasferirsi, circa 2.200 HNWI (High Net Worth Individuals, individui ad alto patrimonio netto con almeno un milione di euro liquidi investibili) solo per lo scorso anno.

È noto come questa transumanza internazionale abbia condizionato il mercato immobiliare milanese e contribuito a far volare tutti i prezzi in città rendendola inabitabile e non solo per i ceti più deboli. Sorprende invece che a glorificare le meraviglie della Milano a misura di HNWI sia proprio Irene Tinagli, la presidente della commissione speciale sulla crisi degli alloggi nell’Unione europea.

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