In questa terribile estate 2025, dove non riesce nemmeno a emergere un tormentone musicale di stagione, a fare breccia tra le tragiche cronache di guerra è stata capace soltanto la vicenda giudiziaria milanese col suo notevole carico di intercettazioni telefoniche.
Ma mentre i commentatori si dedicano a dividersi tra giustizialisti e garantisti, tra guardiani della rivoluzione e paladini del neoliberismo, tra nemici dei palazzinari e avversari della magistratura, duellando su ciò che ci sarebbe di penalmente rilevante nelle carte della procura, per la maggior parte delle persone ciò che appare inequivocabile è la consorteria che ha governato lo sviluppo della città in questi anni.
Sono messaggi imbarazzanti dove tutti si scambiano pareri, informazioni, consigli con un tono adatto a chi si frequenta almeno dalle medie superiori e si invita a una partita di calcetto o alla pizzata di fine torneo. E invece sono i vertici del sistema urbanistico milanese, pubblici e privati, che parlano di complesse trasformazioni urbane, di investimenti da capogiro, di consistenti rendite immobiliari. Occupano tutti posizioni rilevanti nei loro rispettivi settori, dalla pubblica amministrazione agli enti culturali, dalla progettazione agli affari legali, dai fondi immobiliari alle società di sviluppo urbano, ma finiscono per sembrare una banda di bulletti che disprezza le regole e soprattutto l’autorità.

Un livello di confidenza davvero inusuale nel campo delle relazioni istituzionali e professionali. E allora, prima che la magistratura completi il suo lavoro e la giustizia faccia il suo corso, prima che il sindaco Sala tenti il rimpasto di Giunta e prima che la politica (si spera) cominci a fare qualche seria riflessione, si potrebbe introdurre una semplice regola: a Milano si ricominci a usare il “lei”. Si riprenda confidenza col pronome allocutivo di cortesia, quel “lei” reciproco che le regole della convivenza civile riservano agli ambiti di lavoro e istituzionali, fra persone che non si conoscono e nei rapporti gerarchici. Non limitiamoci al “tu”, l’allocutivo naturale, che è adatto soltanto ai rapporti paritari o informali (amicizie, famiglia, anche lavoro ma con colleghi che si frequentano abitualmente).
Il problema non è nuovo. La sempre maggiore influenza della lingua inglese, la padrona dell’era digitale, ha avuto i suoi pesanti risvolti su diverse lingue nel mondo. C’è chi parla di semplificazione estrema, di imbarbarimento, di corruzione. In Italia come in Spagna, anche lei rimasta orfana del classico “usted”.
Come ha ben scritto Andrea De Benedetti, linguista atipico e autore del libro “Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana” (Laterza, Roma-Bari 2009, p. 62): "Non arrivo, per ragioni ideologiche e di età, al punto di struggermi per la dipartita del fascistissimo 'voi', ma non credo di essere l’unico cittadino di questo Paese a coltivare un po’ di nostalgia per i tempi in cui la lingua si incaricava di marcare distanze di ruolo che al giorno d’oggi si sono sgretolate, facendoci sembrare – il professore e l’allievo, l’adulto e il giovane – tutti troppo uguali e tutti troppo amici".
Ecco, tutti troppo uguali e tutti troppo amici. Sembra di essere a Milano. Dovrebbe essere un diritto dei cittadini milanesi vedere architetti che si rivolgono a Giuseppe Sala chiamandolo Signor Sindaco, costruttori che interloquiscono con Giancarlo Tancredi esordendo con Gentile Assessore. E dovrebbe essere dovere di un sindaco e della sua giunta pretenderlo.

Il “lei” aiuta a tenere distanze fisiche ed emotive. Ci costringe a riconoscere il ruolo e la posizione del nostro interlocutore. Ci impone di pensare prima di parlare. Figuriamoci prima di scrivere e inviare messaggi.