LA SINDROME DEL DOPO
E IL DESTINO DEI SINDACI

Domenica mattina, a margine del convegno “L’Europa che vogliamo”, il sindaco di Milano Giuseppe Sala è stato assai esplicito sul suo futuro. “Io so che cosa non farò”, ha dichiarato. “Il mondo delle aziende e della finanza è un capitolo chiuso della mia vita. Mi piacerebbe sicuramente continuare in politica”. Sarebbe facile liquidare la dichiarazione con la semplice constatazione che molto difficilmente un’azienda lo richiamerebbe. Tra l’età, ora di allora molto prossima ai 70 anni, e la perdita di qualunque parvenza di prestigio e professionalità da parte della politica e dell’amministrazione pubblica, si fatica a immaginare transennamenti fuori da Palazzo Marino per tenere lontani cacciatori di teste e capi del personale. Ma il tema è ricorrente, riguarda la gran parte dei sindaci (soprattutto quelli arrivati alla carica dalla società civile) e merita qualche osservazione.

(Il sindaco Sala)

Sia chiaro, Beppe Sala in un’impresa privata non c’è più da un sacco di anni. Almeno dal 2009, quando Letizia Moratti lo chiamò a fare il direttore generale del Comune di Milano. Poi è stato presidente di A2A, azienda pubblica lombarda del settore energia e servizi, Commissario di Expo 2015 e anche consigliere di amministrazione di Cassa Depositi e Prestiti. Ma non è questo il punto. La politica, forse l’unico mestiere con una dimensione realmente totalizzante, qualcosa da cui non ci si stacca mai – non nei weekend non in vacanza, non di notte e nemmeno in malattia – provoca assuefazione e genera crisi di panico al solo pensiero di perdere quella visibilità e quella sensazione di indispensabilità soprattutto nei soggetti particolarmente autocentrati.

(Il sindaco Albertini)

Il destino dei sindaci è un tema con cui la politica da anni è costretta a fare i conti. Il meccanismo è molto chiaro e semplice: al primo mandato sei una risorsa, al secondo un problema da gestire. Perché se non torni al tuo lavoro precedente o non ti rassegni alla pensione, rischi di occupare posti che servono ad altri (politici di mestiere) o comunque di alterare equilibri delicati. Lo sanno tutti i sindaci, ma ognuno, in cuor suo, pensa (e spera) di essere un’eccezione. I sindaci di Milano, poi, sono una categoria abituata a pensare in grande, a prescindere dallo schieramento politico a cui appartengono. Di destra, di centro o di sinistra, sono tutti convinti di essere una grande risorsa per il paese e che Milano sia l’esperienza perfetta per lanciarsi verso Palazzo Chigi o addirittura il Quirinale. Il mito, e riferimento, è Jacques Chirac sindaco di Parigi per tre mandati e a capo di una macchina amministrativa ricca e potente che gli fu di fondamentale aiuto nella scalata all’Eliseo.

(Il sindaco Tognoli)

Ma Milano non è Parigi. E i sindaci che hanno provato la strada della politica nazionale hanno repentinamente visto ridimensionati il proprio prestigio e le proprie velleità. Persino Carlo Tognoli, considerato uno dei migliori sindaci della storia di Milano, fornì assai più pallide prestazioni da ministro per i problemi delle aree urbane del governo Goria/De Mita o del turismo e dello spettacolo con Andreotti. Di Gabriele Albertini senatore ed europarlamentare si ricorda proprio poco. I suoi tentativi successivi di aggregare i moderati e puntare alla presidenza della regione Lombardia sono stati onorati alle urne da un imbarazzante 4,12% che non gli ha nemmeno permesso di entrare in consiglio regionale. Non meno frustrante l’operazione del campo largo di un Pisapia pronto a puntare a Palazzo Chigi, ma poi costretto a ripiegare su una candidatura del PD in Europa dove votò a favore del testo proposto dalle destre e dai popolari che equiparava Stalin e Hitler, comunisti e nazisti.

(Il sindaco Pisapia)

Vedremo cosa ne sarà di Beppe Sala. Certo manca ancora tempo. Essendo stato rieletto il 13 ottobre 2021, il suo mandato scadrà di fatto nel 2027. Ci sono tre anni pieni da amministrare con le Olimpiadi invernali Milano-Cortina di mezzo e non pochi problemi in rapido e allarmante aumento. Lo sa anche lui che infatti ha detto: “Tre anni sono lunghissimi. Ma rimane il fatto che ormai ho capito che se dovessi e potessi continuare a lavorare sarebbe sul fronte politico e sociale”. Ecco, se potessimo permetterci un consiglio pratico, diremmo al sindaco di approfittare di questi tre anni per esercitarsi nel contraddittorio, per imparare ad argomentare e spegnere quell’insopportabile tendenza a incalzare l’interlocutore, anche giornalisti stagisti pagati 25 euro a pezzo e comuni cittadini, ributtandogli polemicamente addosso domande e considerazioni più che legittime. Meglio se lo impara subito: rispondere in modo adeguato aiuta parecchio in politica e serve a elevarsi dal semplice esercizio del potere.

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