MANGIADISCHI
QUANDO IL VINILE
GRACCHIAVA
IN UN BOX

Per chi ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta, prima ancora dei cellulari e di internet quella del mangiadischi fu una trovata rivoluzionaria. Il portable record player rappresentava il sogno di poter ascoltare la musica preferita dove si voleva; era l’antenato dell’iPod.

Già il nome era un programma, non tanto per la bocca, poco più grande del supporto musicale e che ingoiava il disco per sputarlo a fine riproduzione, ma per il meccanismo che lo trascinava all’interno. Produceva effetti usuranti sul vinile che dopo un po' scricchiolava oltre misura. I dischi graffiati, e spesso un po’ sbilenchi, venivano infilati nella fessura dell’apparecchio, e la festa cominciava.



Nel 1966 l’azienda milanese Irradio chiese all’architetto e designer Mario Bellini di disegnare un giradischi portatile rivolto prevalentemente agli adolescenti, i grandi consumatori di dischi. Diventò il simbolo di un’intera generazione. Era un oggetto che si poteva trovare nelle camere dei ragazzi, per terra, sul tappeto o sul letto, oppure appoggiato su un mobile in soggiorno. Esplose all'inizio di un decennio d'oro per la musica leggera italiana negli anni ‘60. Era il tempo delle tifoserie per i cantanti: c’erano i fan di Gianni Morandi, di Rita Pavone, di Caterina Caselli, dei Nomadi, dei Dik Dik…



Si ascoltava musica leggera italiana, qualche hit inglese o francese e, per i più piccoli, le Fiabe Sonore, quelle che iniziavano con “A mille ce n'è nel mio cuore di fiabe da narrar / Venite con me nel mio mondo fatato per sognar...” E ogni volta si verificava un piccolo miracolo per gli occhi e per le orecchie, ma in quegli anni ci si accontentava. Un meccanismo a molla permetteva l’inserimento e l'espulsione automatica del disco, mentre una testina speciale evitava i salti di traccia. Funzionava con le batterie, formato grande da 1,5 volt, che immancabilmente si scaricavano troppo presto; aveva anche un’alimentazione a corrente elettrica che, però, ne impediva il trasporto. Sembrava un grosso salvadanaio; una scatola di plastica con una manopola, un pulsante per estrarre il disco e una maniglia, con pochi riferimenti visivi sulle componenti elettroniche interne. Marche e modelli erano veramente tanti e tutti disponibili in colori vivacissimi. Quello più popolare era Penny, ma c’erano anche i modelli della Wilco, della Grundig o della Geloso.



Io ne avevo uno rosso, modello Penny, che condividevo con mia sorella. Era già tanto che papà l'avesse comprato, ma il fatto che fosse l’unico costringeva a un utilizzo alternato, per differenza di gusti e di età. Nel ’68 avevo 12 anni e non nascondo che oltre alle canzoni ascoltavo anche le fiabe sonore; una troglodita rispetto ai dodicenni dell’era dello streaming e del cloud. Inserivo i dischi, più volte di seguito, con le canzoni preferite; in altre parole sempre il lato A. Ci volle tempo prima che scoprissi il lato B, ma non come si potrebbe intendere oggi. A quei tempi il lato B non era uno specifico particolare anatomico, ma la seconda facciata del disco e a volte capitava che contenesse brani meno popolari ma non da meno dei principali. Quando riuscivo ad avere il mangiadischi tutto per me, diventava la compagnia di interi pomeriggi estivi sotto casa, seduta ad ascoltare in santa pace quello che mi piaceva, da condividere con qualcuno. Ma non sempre ci riuscivo. Presa dall’ascolto e spesso cantando a squarciagola la canzone, non mi accorgevo di attirare l’attenzione.



“Me lo presti?” era la domanda che temevo di più. Il più delle volte acconsentivo per non essere scortese; era difficile inventare una scusa per evitare di averlo indietro solo a fine giornata. Quando invece lo usavo in casa, non mancavano le esortazioni dei genitori “Abbassa il volume” o peggio ancora “basta con ‘sta musica, l’avrai sentita cento volte.” A diciott’anni non era ancora il tempo della maggiore età, ma della patente di guida sì. Così lo sistemavo in macchina sotto il sedile, insieme al portadischi inventato appositamente per conservare i 45 giri; avevo la musica a portata di mano. Peccato, però, dover girare il disco al termine di ogni canzone, cioè ogni tre minuti; una bella distrazione per la guida. Non rimaneva che spingerlo di nuovo nell’interno del marchingegno e ascoltare sempre la stessa canzone.



Il ricordo del suono gracchiante che proveniva da quella scatola è indelebile. Riporta alla mente ricordi di un'epoca in cui la musica era un'esperienza semplice e diretta. Una magica scatola di plastica che ci ha fatto divertire e fantasticare. Alzi il dito chi, da ragazzo, non ha mai ballato ad una festa di compleanno avvinghiato a un ragazzo o a una ragazza mentre il mangiadischi suonava un lento dei Procol Harum (A whiter shade of pale) o dei Pooh (Tanta voglia di lei). Si andava alle feste con i 45 giri sotto il braccio, era il tempo in cui i ragazzi tifavano per Gianni Morandi e i papà per Claudio Villa. Eravamo quelli che credevano il Tanga fosse una piccola radio verde.

(La Tanga radio)


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