IL TELEFONO
DUPLEX
TEMPO PIENO
E TEMPO VUOTO

C’era una volta l’ascensore sociale. E nell’autunno del 1968 – anno di per sé fatidico – tutta la piccola e felice famiglia Fusi si trovò a premere il pulsante per il piano superiore. Ma che dico, ascensore sociale! Quello fu per tutti noi l’imbarco su una navicella spaziale in volo verso gli strati alti dell’atmosfera. Amati odiati simboli del benessere borghese. Intanto - e per prima cosa - uno spazioso appartamento al secondo piano del nuovo quartiere in costruzione attorno allo stadio. Edilizia popolare 167, si chiamava: classe media, due bagni, due camere da letto, un salotto spazioso e un balcone aperto verso la campagna.


(Archivio storico Telecom, campagna promozionale)


All’ingresso, sul mobile d’ordinanza di legno impiallacciato collocato sotto la specchiera, ecco il telefono di famiglia: una specie di piccola tartaruga grigia addormentata e silente. Mio padre ci spiegò che era un apparecchio duplex: un servizio che noi Fusi avremo condiviso con la famiglia del terzo piano. I Martellini: padre, madre, due bambini piccoli e due affettuosi labrador color miele, che risalivano le scale del condominuo come se intendessero ogni volta assalire le cime nevose del Gran San Bernardo.

Con il telefono duplex si dimezzavano i costi della bolletta in cambio di una condivisione di umanità: se ci pensate, un modesto assaggio di socialismo. Un leggero click segnalava che l’apparecchio era occupato dai nostri vicini, e un altro click avvertiva quando la linea tornava ad essere libera. Attraverso la frequenza e l’orario dei click io e mio fratello potevamo indovinare chi della famiglia Martellini utilizzava il telefono e credo che lo stesso potessero fare i nostri vicini del piano di sopra: una sorta di affettuoso, muto riconoscimento. Se ci penso oggi – a distanza di un diluvio di secoli – posso dire che quella fu una convivenza felice, mai turbata da nuvole di risentimento, urgenza o invidia.


(Museo storico Tim di Torino)


È vero: la signora Martellini era lunga, e forse – non ricordo bene - telefonava spesso alla vecchia madre. All’ora di pranzo, quando tutta la nostra famiglia era riunita attorno al tavolo della cucina, arrivava spesso dall’ingresso il click che annunciava un lungo black out nella comunicazione famigliare. Mia madre alzava allora gli occhi e sorrideva appena. Non c’era bisogno di parlare, quello sguardo diceva: “Eccola, la telefonata della signora Martellini.”

Noi ragazzi eravamo più impazienti: avevamo ogni giorno mille comunicazioni da sbrigare, mille appuntamenti e mille fondamentali impegni nella nostra lotta quotidiana per salvare il mondo dalla rovina. Leggo qui: impazienti e mi accorgo che non è questa la parola giusta. Allora non eravamo impazienti e posso giurare che mai – dico mai – la nostra impazienza si rivolse contro il duplex, e meno che meno contro la famiglia Martellini.

Così andava, con quel manufatto di plastica grigia appostato sul mobile di ingresso. Nel pomeriggio mi attardavo a volte in cortile per giocare a pallone con i due ragazzi Martellini. Ingannavo così il tempo, in attesa di una chiamata del mio amore di allora: il primo vero, e lei non tanto donna - poco più di una bambina. Così, tra un passaggio e l’altro, tra un colpo di testa e una botta contro la saracinesca del garage, aspettavo che mia madre si affacciasse al balcone per annunciarmi la telefonata che aspettavo.


(L'assemblaggio dei telefoni in uno stabilimento Siemens - archivio storico Tim)


Correvo di sopra e la cornetta grigia che riposava libera sul piano del mobile era piena di dolcezza e promesse. Non ho mai chiesto a lei – la ragazza mora della mia gioventù – se anche il suo telefono fosse un duplex e se il ritardo di una chiamata che mi faceva battere il cuore come l’annuncio di un tradimento fosse dovuto a una vicina troppo chiacchierona.

Anche il telefono duplex infine uscì dalla nostra vita in punta di piedi. Come la prima lavatrice di mia madre sistemata nel bagno di servizio, un cassone minaccioso che quando passava al programma della centrifuga faceva tremare tutta la casa come l’annuncio di un terremoto. Come tanti vecchi manufatti e pezzi di vita gettati via e rimpiazzati, e superati e dichiarati inservibili, fuori moda.


(Un duplex)


Fuori del tempo, di cui il telefono duplex era una remota misurazione, non diverso dalla clessidra o da una meridiana. Tempo pieno e tempo vuoto, luce e ombra, presenza e assenza, atto e intervallo, che oggi abbiamo sostituito – hanno sostituito? – con un tempo tutto pieno. Allora – quando il ragazzo che ero correva al secondo piano con il cuore in gola - il click annunciava la delizia di una conversazione amorosa, e la stessa attesa era la necessaria dolcissima preparazione all’amore. Come dice il poeta, “tra l’idea e la realtà/ tra l’emozione e l’atto/ cade l’ombra.” Non più ombra – oggi - non più vuoti, non più attese. Abbiamo guadagnato nel cambio? Abbiamo davvero bisogno che tutto sia misurato in pieno sole? Ma questo è un pigro interrogativo da vecchi signori e, del resto, scrivo in una rubrica dedicata alla nostalgia, che per i maestri greci è nello stesso tempo “desiderio e dolore del ritorno.”

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