GHIACCIOLO
QUEL MORSO
BASTARDO

“Mi fai dare un morso?”. Essendo il ghiacciolo un riconosciuto diritto inalienabile tra le imberbi masnade torinesi di Porta Palazzo nelle estati tra i Cinquanta e Sessanta, il proprietario del gelido blocchetto impalato su uno stecco acconsentiva per senso del dovere sociale e convenienza. A rifiutare si passava da “bastardo”. Cioè anima prava, carognetta: senza riferimento alcuno a dubbie ascendenze. Bastardo nella koiné linguistica del quartiere era chi sgambettava da tergo un avversario durante il quinto o sesto tempo della partita di calcio giocata su acciottolato, asfalto o terra battuta; era il cìvich (vigile urbano) che sadicamente sequestrava il pallone Super Tele per l’inaccettabile motivo che in certi giardini era vietato; era chi non scambiava una figurina mancante abbastanza rara anche se l’aveva doppia; era chi a scuola “consegnava”, al maestro o al prof, il compagno che in fondo all’aula stava onestamente facendo un po’ di casino; era chi non offriva mai i seguenti generi di conforto: ciuingam (chewing gum, altrimenti dette cicles, dalla marca Chiclets), un confetto Flormenta Fassi in scatola metallica, un pezzo della stringa di liquirizia, tenuta in tasca dalla mattina o lì dimenticata dal primo trimestre o appena caduta per terra: una prelibatezza.



Il consenso al morso poteva però costare caro ai meno esperti, che ingenuamente non offrivano il ghiacciolo (a Torino detto stick, bastoncino, al gusto menta o limone e stop) tenendolo dritto verticale, ma orizzontale. Errore. Il ghiacciolo tenuto verticalmente consentiva un controllo migliore dell’altrui morso e limitava i danni alla parte superiore, mentre l’offerta in orizzontale era come abbassare la guardia, un’istigazione a delinquere con morso laterale - da veri bastardi - al corpo grosso e asportazione di consistenti quantità del corroborante mix di acqua trattata e congelata con l’aggiunta di aromi di origine parachimica che della menta e del limone avevano solo sentito parlare. Lo stick era racchiuso in carta politenata e, appena estratto dal contenitore dei gelati, faceva tutt’uno col ghiaccio aromatizzato, per cui si doveva pazientare o scaldare il ghiacciolo, tenendolo tra le mani oppure appoggiandolo sulla nuca-collo di un amico. Una gratificante mossa. Da bastardi, ovviamente.

Un sodale di infiniti pomeriggi ai giardini Reali “di sotto” - i più pop, quelli “di sopra” erano del genere guardare e non toccare - evitava la richiesta di assaggi al ghiacciolo succhiandolo tutto all’intorno. Il verde della presunta menta diventava esangue e insapore, dissuadendo gli aspiranti morsicatori. Pare inutile sottolinearlo, ma abitualmente lo stick si azzannava, crogiolandosi in bocca il ghiaccio. I pochi che, per contro, volevano farlo durare il più possibile, gustandolo a piccoli bocconi o aspirandone le gocce sempre più fitte, peccavano di hybris come Icaro. L’instabile ghiacciolo, nudo contro la calura, è una scuola di vita, mette in gioco fiducia, amicizia, generosità, intelligenza, attiva relazioni. Mai, mai un genitore avvertito si sarebbe sognato di negarlo al proprio figlio, salvandolo magari, se il pargolo era troppo avido, da una banale congestione, e però privandolo di alcuni indispensabili fattori di crescita spirituale. Il ghiacciolo d’antan, non quelli spuri dei Settanta con creme aggiunte, era un’idea di fresco presto tradita, un’illusione, un precoce monito sulla vanitas. Un breve paradiso condannato dalle leggi della termodinamica e della gravità, se si cincischiava, a staccarsi improvvisamente dal bastoncino con inevitabile precipizio sul marciapiede.



Il chiosco in viale Regina Margherita - credo fosse gestito in prima persona da Lucignolo - ci aspettava al varco ogni giorno. Qualcuno tradiva lo stick per una fetta di cocco, esibita in una specie di portafrutta in acciaio con fontanella incorporata o una cedrata dal color giallo Chernobyl. Altri “mamma non vuole che mangi fuoripasto”: che crudeltà levare ai figli il meglio dell’esistenza. Si rientrava accaldati sognando un’impossibile spuma ginger nel frigo di casa, le facce dal fucsia al porpora, con chiazze bianche da pre-collasso. Incarnati distinguibili in virtù delle colate di sudore che striavano spesse maschere di polvere e detriti di ogni genere lasciando intravedere la pelle sottostante. Narra la leggenda che Mauro P. una sera avesse suonato alla porta di casa con i connotati così stravolti che la sorella piccola non l’aveva riconosciuto e gli aveva sbattuto la porta in faccia.

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