In questi giorni è uscito nelle sale cinematografiche 'The Apprentice' (L’apprendista), film biografico sulla giovinezza di Donald Trump. Il film è diretto dall’iraniano-danese Ali Abbasi, la sua star è il rumeno-americano Sebastian Stan, truccato e soprattutto imparruccato talmente bene da sembrare una copia esatta di Trump. Chissà cosa ha pensato Trump del fatto che il film è il lavoro di due immigranti. È certo che ha detto, con la sua solita delicatezza, che il film “è una calunnia politicamente disgustosa fatta da feccia umana.”
'The Apprentice', che ha debuttato a Cannes quest’anno di fronte ad un pubblico entusiasta, ha ricevuto apprezzamenti misti dalla critica, perfino quella che dovrebbe essere più amica come il Guardian. E se lo vediamo nelle sale è solo perché Trump non è presidente. Da privato cittadino ha fatto di tutto per bloccarlo, ed è riuscito almeno a rallentarne l’uscita e limitarne l’impatto, impaurendo i produttori, i distributori e il marketing. Eppure, lasciando la sala, ci siamo chiesti: ma cosa temeva Trump da questo film?

Il film rivela la formazione politica, ma anche umana, se così si può dire, di Donald Trump. Ci porta dentro un mondo di privilegi e impunità estorti con la frode e i ricatti, di immoralità e di abusi. Ci offre il ritratto di un uomo debole e forte allo stesso tempo, dall’ambizione sfrenata, meschino, sinistro e narcisista. Pare che Trump non sia preoccupato di tutto questo quanto di alcuni passaggi specifici del film, quelli in cui stupra sua moglie Ivana, si fa la liposuzione, si fa trapiantare i capelli, e usa anfetamine per dimagrire e stare al passo con le sue attività frenetiche giornaliere. Sono crimini e debolezze che non collimano con la sua mitica immagine di uomo di successo.

La sceneggiatura di 'The Apprentice' è del giornalista politico Gabriel Sherman, un esperto di figure prominenti della destra: qualche anno fa ha scritto una biografia di Roger Aisles, la mente dietro il canale televisivo conservatore Fox. Avvincente è la ricostruzione fatta da Sherman del rapporto tra il giovane Trump e un'altra icona conservatrice, l’avvocato Roy Cohn, il cacciatore di streghe comuniste dai Rosenberg alle vittime del Senatore McCarthy, di cui Cohn era uno stretto collaboratore. Recitato magistralmente dall’attore Jeremy Strong della serie 'Succession', Cohn si mostra orgogliosamente gay in privato ma persecutore dei gay in pubblico, uno che voleva fare parte delle élite ma passava il suo tempo con capi mafia come i leggendari Vincent “the Chin” (il Mento) Gigante e Anthony, o Fat Tony (Tony il grasso) Salerno. Soprattutto, Cohn si sentiva sopra la legge.

Il giovane Trump, vessato da un padre autoritario e sprezzante nei confronti dei figli, sedusse e fu sedotto, metaforicamente, da Cohn. Il film suggerisce qualcosa di più a proposito della seduzione, un altro motivo per farlo odiare a Trump. Siamo nella New York degli anni Settanta, una città in preda alla crisi fiscale, con palazzi murati e abbandonati perfino nei quartieri più centrali della città, il crimine e la povertà alle stelle. I Trump, palazzinari del Queens, sono accusati dal Ministero della Giustizia di discriminazione nei confronti delle minoranze di colore. Cohn li aiuta ad evitare la condanna e soprattutto una multa milionaria con una strategia vincente che è un misto di principi ciarlataneschi e amorali ma anche di maniere forti che includono ricatti a giudici e politici.

L’apprendista Trump impara rapidamente le regole del successo di Cohn, e le fa sue. Sono tre: 1. attacca, attacca, attacca; 2. non ammettere nulla, nega sempre tutto; 3. e soprattutto non ammettere mai una sconfitta. Queste regole garantirono per decenni soldi e successo a Cohn, fino al 1986: prima gli fu tolta la licenza di avvocato per aver cercato di far firmare ad un morente un documento che rendeva Cohn esecutore del suo patrimonio, poi l’AIDS lo uccise. Donald Trump, fedele a nessuno se non se stesso, lo mollò non appena le sue fortune si spensero.
Il film inevitabilmente umanizza sia Cohn che il giovane Trump. Se non fosse così, sarebbe un cartone animato. Il risultato è pesante. Come non provare un sentimento di pietà per Cohn quando è completamente sconfitto, umiliato, malato, abbandonato da tutti e perfino dal suo delfino? Forse bisogna ricordarsi che Cohn non ebbe mai pietà per nessuno. Per esempio, fece pressione perché Ethel Rosenberg fosse mandata alla sedia elettrica, mentre altri l’avrebbero risparmiata in quanto donna e madre.

Anche Trump a tratti suscita quella simpatia ambigua come fanno sempre i mascalzoni dello schermo, anche perché è circondato da personaggi altrettanto criminali. Se non sapessimo come si sviluppa la storia, faremmo il tifo per lui quando lo vediamo lottare per affermarsi indipendentemente dal padre e lontano dalle sue case popolari, o quando punta a risollevare New York City dalla sua crisi materiale ed esistenziale nonostante gli ostacoli siano enormi e i soldi pochissimi. E quando ha successo, ci mostra come funziona la sua visione distopica del sogno americano, quella nella quale vincono non l’etica del lavoro ma l’amoralità, la cialtroneria e la criminalità.
A Tony Kushner, vincitore del Pulitzer nel 1993, tra gli altri premi, per il suo dramma 'Angels in America', hanno chiesto recentemente come mai non abbia messo Donald Trump accanto a Roy Cohn nella sua sceneggiatura: “Negli anni Ottanta, mentre Trump stava emergendo nella vita newyorkese, il fumettista Gary Trudeau lo prendeva sempre in giro. Mi chiedevo, ‘Perché spreca tutto quel tempo a pensare a Donald Trump? È solo un palazzinaro razzista e un clown.’ Non pensavo che fosse un uomo interessante. Ma io avevo torto e lui ragione! Quella persona bizzarra che recentemente in Pennsylvania oscillava ascoltando Andrea Boccelli è la stessa del Trump degli anni Ottanta. È lo stesso venditore di sempre, solo che ora è un incubo nazionale, globale.”

Quaranta anni dopo, ottantenne, Trump continua a vendere bene la sua immagine di uomo di successo. Leggiamo che in Arizona, tanto per fare un esempio, elettori maschi repubblicani intendono votare per il candidato democratico al Senato Ruben Gallego e non per la trumpiana Kari Lake perché detestano la Lake e Trump. Ma per le presidenziali voteranno per Trump perché lui si, che sa mandare avanti l’economia. Ancora una volta prevale il sogno distopico americano del successo ad ogni costo e con chiunque, non importa quanto detestabile.
La verità è che Trump non è quell’uomo di successo che tutti credono sia. La settimana scorsa ho scritto un articolo intitolato 'America Fantastica', nel quale cerco di raccontare un paese dove tutti mentono sapendo di mentire, e senza cura per le conseguenze. Lo fanno per soldi, per opportunismo, per orgoglio, per ambizione e per paura. In un sussulto di pentimento, l’ex-capo della promozione della NBC, John Miller, qualche giorno fa ha chiesto pubblicamente scusa alla nazione in una lettera aperta pubblicata da 'US News and World Report' per il suo ruolo nel fare di Donald Trump una celebrità con il reality show 'The Apprentice (2004-2017)'. Nello show Trump, seduto dietro una scrivania di lusso, licenziava con un fiat i piccoli imprenditori che competevano per un ottenere un contratto di un anno con la sua società.

Per vendere lo show, scrive Miller, creammo la fantasia che Trump era un uomo d’affari di grandissimo successo che viveva come un re. Era una grande esagerazione. Trump aveva dichiarato bancarotta quattro volte prima dello show e altre quattro durante. La scrivania e l’ufficio furono costruiti in studio perché quelli reali alla Trump & Co. erano troppo modeste e sciatte. Conclude Miller, mi scuso di aver diffuso fake news per aver successo. Come Trump, tale Miller. Questo è esattamente il motivo per il quale il candidato Trump ha la chance di diventare presidente ancora una volta nonostante non ne abbia il carattere, la capacità, l’età, la competenza, e perfino una storia di successo negli affari.
*Anna Di Lellio insegna politica internazionale alla New York University. Da trent'anni segue le elezioni presidenziali americane e partecipa alle campagne del candidato democratico nelle attività di porta a porta.