Andatelo a dire agli haitiani di Springfield (Ohio) e Aurora (Colorado), lavoratori legali di un’economia in ascesa grazie a loro, che non devono preoccuparsi se Donald Trump verrà eletto presidente, che tanto la democrazia americana è forte, e che la polizia e i tribunali li proteggeranno da eventuali eccessi di una presidenza limitata nei suoi poteri dal Congresso e dalla Corte Suprema. Non c’è nessuno negli USA che creda a questa fantasia, a meno che non sia molto ignorante o molto in mala fede. La prospettiva dell’autoritarismo non è l’uomo nero inventato dai democratici per drammatizzare la campagna elettorale. È una promessa di Donald Trump e del Partito Repubblicano nella sua interezza, lo stesso partito che è malauguratamente vicino a conquistare il Senato e che domina il Congresso, un grande numero di corpi legislativi statali e di governatori, una pluralità di corti distrettuali e federali, e, ciliegina sulla torta, la Corte Suprema.

Dopo aver diffuso la falsa notizia che gli haitiani di Springfield rapiscono e mangiano cani e gatti, notizia smentita dal sindaco ma mantenuta in vita dai repubblicani, Trump ha promesso che se eletto comincerà da Springfield ed Aurora la sua promessa deportazione in massa degli immigrati. Ha specificato che rimanderà tutti gli haitiani in Venezuela. Non è una gaffe senile, ma un progetto razzista di purificazione degli USA e destabilizzazione del paese “comunista” di Maduro. Sarà impossibile realizzarlo perché gli haitiani sono immigrati legali e gli USA sono una democrazia? No. Possibilissimo invece. In primo luogo, la maggioranza di questi haitiani sono qui per grazia dell’amministrazione Biden. Nel 2022, l’amministrazione ha garantito la riunificazione delle famiglie a chi era cittadino o in possesso di una green card. Nel 2023, Biden ha esteso agli haitiani (ma anche ai cubani e ai nicaraguensi) il permesso di soggiorno di due anni inizialmente riservato ai venezuelani, condizionato alla sponsorizzazione di un cittadino americano e all’arrivo nel paese per via aerea, insomma, non attraversando il Rio Grande illegalmente. I dati disponibili fino al settembre del 2023 ci dicono che 85,300 haitiani hanno beneficiato di questo permesso. Poi c’è il Temporary Protected Status (TPS), che garantisce il permesso temporaneo di lavoro e l’esenzione dalla deportazione a più di 116,500 haitiani. Questo permesso era in vigore dal 2010 per via del terremoto che aveva devastato Haiti, ma Trump lo aveva revocato nel 2017, dando agli haitiani la scadenza del 2019 per andarsene o essere deportati. Poi nel 2020 Biden ha ristabilito il permesso.

Se Trump vincesse a novembre, con un decreto presidenziale annullerebbe di nuovo questa protezione. Magari non riuscirebbe a deportare milioni di immigrati, ma centomila e rotti basterebbero per cominciare. Identificarli ed arrestarli sarebbe un gioco da ragazzi. Le cittadine in questione non sono santuari per gli immigrati, municipi dove per legge locale la polizia non può collaborare con gli organi federali in questa materia. Sono città repubblicane. In Ohio il governatore è repubblicano. Solo in Colorado forse il governatore democratico Jared Polis potrebbe fare qualcosa. Ma cosa, contro un decreto presidenziale? Portare la questione in tribunale? Bella domanda. La Corte Suprema ha dimostrato di prendere sempre le parti del presidente in materia di immigrazione, come quando ha difeso la decisione di Biden di metter fine alla politica trumpiana “Remain in Mexico” e quella di negare la green card sulla base della potenziale dipendenza dall’assistenza pubblica dei facenti domanda. Con Trump presidente, non ci sarebbero limiti alla sua discrezione, e non solo perché la Corte Suprema gli ha concesso l’immunità totale. La presidenza americana possiede già elementi imperiali, e l’uso dei decreti per circonvenire le limitazioni del governo delle leggi è pratica diffusa. Decisamente, per rispondere alla domanda del Papa, Trump è il male peggiore.
Ma perché cominciare la deportazione di massa dagli haitiani di Springfield e Aurora? Una chiave di lettura ci viene dal contesto. Ad agosto, il gruppo neonazista Blood Tribe (Tribù del Sangue), chiamato anche Blutstamm per chi non avesse capito la connessione con l’antecedente storico, ha temporaneamente sospeso le sue proteste contro i gruppi LGBTQ+ e ha marciato per le strade di Springfield in camicia rossa (sic), con fucili e bandiere con svastiche. Un loro rappresentante, Nathaniel Higgers, ha detto in un’udienza del comune: “Sono venuto ad avvertirvi. Fermatevi prima che sia troppo tardi. Il crimine e la barbarie aumenteranno con ogni haitiano che arriva e con la frustrazione pubblica e la paura…” Il vice di Trump, J.D. Vance, uno dei più attivi propagandisti della storia del massacro dei gatti, propaga anche la storia degli haitiani come untori di HIV-Aids.

Non sarebbe la prima volta che gli haitiani diventano un target della destra, e non solo della destra, per il loro presunto carattere di “contaminatori”. Negli anni Novanta, i rifugiati haitiani furono detenuti, sottoposti a test, e i malati di HIV confinati in una sezione separata del campo di detenzione di Guantanamo a Cuba. Forse non tutti ricordano che Guantanamo, dall’11 settembre del 2001 la casa di terroristi islamici, veri e non, divenne attivo nel 1991 per ospitare le migliaia di haitiani che fuggivano dalla violenza dei paramilitari del FRAPH, gli eredi dei tonton macoute dei dittatori Duvalier. La violenza di allora era legata al colpo di stato di una junta militare contro il presidente Jean-Bertrand Aristide, eletto con quasi il 70% dei voti. Gli haitiani che arrivavano alle coste della Florida su barconi di fortuna venivano rimandati indietro dal presidente George H. Bush, mentre i cubani che arrivavano sulle loro zattere venivano salvati dalla guarda costiera e benvenuti come richiedenti asilo. Quando un tribunale decretò che la deportazione di Bush era illegale, gli haitiani vennero internati da Bush e poi Clinton a Guantanamo in condizioni inumane. Un progetto di storia orale raccoglie le commoventi testimonianze di questi detenuti.
La classificazione e il trattamento degli haitiani come violenti e selvaggi ha una lunga storia. Ma Haiti è l’unico posto al mondo dove gli schiavi africani si sono liberati da soli nel 1804 dai loro schiavisti francesi. È anche l’unico posto dove invece di compensare gli schiavi sono stati gli ex-schiavi a compensare la Francia per le proprietà materiali e umane perdute, un debito che per via degli interessi si è estinto solo nel 1947. È il paese dove il presidente Woodrow Wilson, campione dell’autodeterminazione dei popoli, mandò i marines nel 1915 per riprendersi direttamente dalle casse della Banca Centrale i soldi di cui Haiti era debitore. Saltando ad anni più recenti, è il paese dove Bill e Hillary Clinton, tra gli altri, hanno promosso una politica ed economia dell’assistenza che ha contribuito al loro arricchimento ma all’impoverimento del paese, come racconta Raoul Peck nel suo devastante documentario 'Fatal Assistance' (Assistenza Fatale).

Anche la storia dell’assistenza è lunga: negli anni Sessanta gli americani fecero uccidere tutti i maialini neri dell’isola per importare i loro, rosa, che purtroppo morirono da soli per il clima locale, adatto appunto solo a quelli neri. Sarebbe impossibile non criticare la leadership politica di Haiti, incapace di mantenere l’ordine e sviluppare il paese, attualmente in preda a gangs violente e povertà diffusa. Gli Stati Uniti hanno però una grande responsabilità per le condizioni in cui si trova Haiti. Non c’è haitiano che abbia incontrato, tra i numerosi tassisti newyorkesi ma anche studenti alla New School e NYU, che non odi le famiglie Bush e Clinton, nonostante fosse stato proprio Clinton nel 1993 ad intervenire per cacciare i dittatori militari e riportare ordine nel paese. Oggi, come allora, è proprio la storia di Haiti come paese fondato da schiavi africani e la condizione estremamente critica nella quale si trovano i suoi abitanti in cerca di asilo che i repubblicani sfruttano per costruire l’immagine dello straniero selvaggio da espellere perché contamina la nostra civiltà. Sotto un’eventuale amministrazione illiberale di Trump, l’istituzionalizzazione di questo razzismo sarebbe perfetta.
*Anna Di Lellio insegna politica internazionale alla New York University. Da trent'anni segue le elezioni presidenziali americane e partecipa alle campagne del candidato democratico nelle attività di porta a porta.