alla NEWSLETTER di foglieviaggi
Tra scenografie rigogliose e combattimenti da visibilio, le palpitanti vicende dei prodi umanoidi azzurri Na’vi di Pandora, celestiale e remota luna finita nel mirino delle brame terrestri, continuano a sedurre le platee di mezzo mondo, dai sei ai novant’anni d’età. “Avatar - Fuoco e cenere”, terzo capitolo ipertecno della favolona di action fantasy firmata James Cameron, è stato girato in Nuova Zelanda ed è costato ai 20th Century Studios, ovvero alla Disney, 400 milioni di dollari e il frutto è tanto spettacolarmente succoso quanto americanamente sovrabbondante, a partire dalla durata di 197 minuti senza peraltro mezzo minuto di stanca.
Le peripezie del caporale dei marines Jake Sully (Sam Worthington), un avatar creato unendo dna umano e Na’vi e passato a fianco dei nativi per amore della principessa Neytiri (Zoe Saldana), sono mirabolanti e insieme comodamente collocabili nell’universo delle nostre emozioni basiche, amore, coraggio, empatia, paura. L’investimento è monstre, affidato alle ottime mani del regista canadese padre di “Titanic” e “Terminator”, col primo “Avatar” uscito nel 2009 ha incassato quasi tre miliardi di dollari, record mondiale non superato, e col secondo “Avatar - La via dell’acqua” del 2022 è andato ben sopra i due, terzo maggior incasso di sempre, confermando le potenzialità di un franchise destinato a proliferare con “Avatar 4” in sala nel 2029 e “Avatar 5” nel 2031. Un filo inquietante, però, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, sono filmoni destinati al grande schermo, una diga contro l’alluvione dei colossi dello streaming (Netflix, per citarne uno).
Business e imponenti mezzi vanno da sempre a braccetto con idee vincenti, a partire da quella primigenia di Cameron, “progettista” di un pianeta remoto abituato a vivere più o meno in pace, popolato da creature oblunghe in mistica comunione con la natura in ogni sua forma, vegetale e animale. Incanto su cui, nel 2129, mettono occhi telescopici i terrestri, in pesante crisi energetica e quindi ingolositi da Pandora, luna preziosa zeppa di unobtainium, sostanza utilizzabile per la levitazione magnetica, senza contare le strabilianti proprietà curative di erbe, piante e viventi vari. Un Eden nell’orbita del pianeta gassoso Polifemo, lontano 60.000 miliardi di chilometri dalla terra, fatalmente destinato alla colonizzazione da parte dell’homo faber, soggetto rompicoglioni quando porta in mano una bandiera imperiale, che sia l’Union Jack oppure a stelle e strisce non fa differenza, e serba nella zucca una distorta presunzione di civiltà.
Senza dubbi “Avatar” è la saga cinematografica più hi-tech sul mercato, viene girata in motion capture, con gli attori interpreti di Na’vi e avatar ricoperti da sensori che ne registrano balzi, cadute, espressioni facciali. Il tutto poi è elaborato dagli algoritmi tramite la CGI, Computer-generated imagery e replicato alla perfezione, sorrisi e urla comprese. Sembrano cartoni animati e non lo sono, “Avatar - Fuoco e cenere” è un live action a tutti gli effetti, con movimenti (quasi) perfettamente naturali grazie all’ HFR, l’high frame rate, tecnologia che permette di aggiornare un’immagine in movimento più velocemente di 24 fotogrammi al secondo. Chiudiamo la noiosa parentesi, era solo per segnalare che l’ingegneria cinematografica spinta all’estremo si coniuga con una poetica nemica giurata della tecnologia e radicalmente ostile alle derive di un progresso troppo inquinante e oppressivo per essere ancora tale. Curioso, no?
I Na’vi del clan Omaticaya non ne vogliono sapere di impianti estrattivi e combattono con archi e frecce, in groppa ad anatroni preistorici, l'esercito Usa e la SecOps, il braccio armato privato della RDA (Resources Development Administration) guidato dall’ex colonnello dei marines Miles Quaritch (Stephen Dalton) pure lui un avatar. Emigrati dalla foresta alla costa, i Na’vi non si fanno domare. E si alza il sipario su “Avatar - Fuoco e cenere”, molto mirato - nei minuti lasciati liberi da bombardamenti, lotte all’ultimo sangue contro i nuovi nemici del clan di pirati Mangkwan, svoli ardimentosi e immersioni da sogno in acque paradisiache - sulla corrente fisica e spirituale che lega i Na’vi alla Natura e a tutte le creature, compresi i Tulkun, poderose megattere senzienti, una tribù dell’acqua minacciata dai colonizzatori che vogliono sterminarle per estrarre il loro prezioso fluido cerebrale, l'Amrita, dotato di proprietà anti-invecchiamento miracolose. Un crudele affarone. E altri se ne prospettano.
Nella guerra contro la RDA, Sully e Neytiri hanno perso il figlio maggiore Neteyam, in famiglia si è aggiunto al più giovane Lo’ak (Britain Dalton) e alla sorella Kiri (Sigourney Weaver, digitalizzata e ringiovanita) un ragazzetto umano, il “pellerosa" Spider (Jack Champion), capitato lì per vie traverse durante il conflitto. Per vivere nella particolare atmosfera di Pandora deve indossare una maschera ossigenante, a tutti gli effetti è un diverso, figlio oltretutto del colonnello Quaritch e Neytiri lo odia, ne chiede e ottiene l’allontanamento. Durante il viaggio sui galeoni volanti (un’ onirica bellezza) del commerciante Peylak (David Thewlis) del clan Tlalim, la famiglia Sully, impegnata ad accompagnare Spider alla base terrestre, e l’equipaggio vengono attaccati dai pirati Mangwan, il popolo della cenere guidato dalla spietata Varang (Oona Chaplin figlia di Geraldine). Tra mille odissee, Spider, non potendo ricaricarsi d’ossigeno, rischia il soffocamento e viene salvato da Kiri che si connette a lui facendo da tramite con Eiwa, la Grande Madre Natura.
Spider è vegeto e respira senza maschera, i suoi polmoni sono stati benignamente invasi da un intreccio di filamenti, come il micelio dei funghi, che lo hanno adattato all’atmosfera di Pandora. Il ragazzo viene catturato dall’esercito occupante e passato ai raggi X per scoprire il motivo del miracolo. Nella smisurata base-hangar dei terrestri lo scienziato Parker Selfbridge (Giovanni Ribisi) fa uno più uno: scoprendo il modo in cui Spider si è adattato a respirare senza maschera, si porrà rimedio alla differente atmosfera di Pandora e gli umani potranno colonizzarla senza freni. Chiedersi se ce la faranno è come dubitare della vittoria del Bene contro il Male.
“Avatar - Fuoco e cenere” non strappa applausi per la drammaturgia, piuttosto banalotta. Cerca echi profondi nel respiro di Eiwa, lo spirito della vita, di ogni vita però gioca su semplici coppie di opposti, papà Sully all’inizio in attrito con l’adolescente Lo’ak è il classico conflitto generazionale, Kiri è la ragazzina insicura pronta nei momenti cruciali a scoprire le sue doti di sensitiva e tramite con Eiwa, Sully duella sul filo dell’abisso con Quaritch, Neytiri madre di famiglia si oppone alla sensuale Varang, regina del fuoco e virago mangiauomini. I suoi accoliti paiono un calco del cattivo selvaggio primitivo e come pellerossa storditi dall’alcol vengono facilmente sedotti dai fucili dei bianchi, una derivazione un po’ ingenua nel fiorire, per contro, di invenzioni scenografiche e coreografiche culminanti nel Giudizio Finale, quando tutte le tribù unite dei Na’vi, esclusi i nemici pirati Mangkwan, vedono al loro fianco la Grande Madre, sollecita a scatenare gli incazzatissimi balenoni Tulkun e frotte di calamari all’attacco delle motovedette armate della generalessa Frances Ardmore (Edie Falco).
La battaglia conclusiva, affascinante pur nel contesto bellico-distruttivo, è un tripudio visivo, la summa di un universo pandoriano “autentico” e immaginativamente profondo. Onore alla troupe, dal montaggio di John Refoua e Stephen Rivkin, specialisti del genere, ai costumi di Deborah Lynn Scott (Oscar per Titanic), dagli effetti speciali affidati a un team stellare con Joe Letteri ed Eric Saindon (Oscar per Avatar 2) alla regia di James Cameron, pure cosceneggiatore, coproduttore con la sua Lightstorm Entertainment e supervisore al montaggio. Un autentico demiurgo del film e a 71 anni suonati, chapeau. La miglior risposta a chi vede nel galoppo delle tecnologie l’esaurirsi della funzione registica, nel suo senso più largo.
Noticina. Lo strepitoso pandemonio in chiusura di film sigla un nuovo, alto standard nella spettacolarità, a pari merito con l’elaborata scena in piano sequenza della discesa di Ethan Hunt/Tom Cruise nel gelido mare di Barents per disattivare il codice sorgente di una intelligenza artificiale canaglia ancora custodito nel “Sevastopol”, un sottomarino russo affondato. L’ultima, estrema Mission Impossible. “Avatar - Fuoco e cenere” è distribuito da 20th Century Studios Italia.