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SMASHING MACHINE
COLOSSI-BAMBINI
DELLA DEEP AMERICA

di ANDREA ALOI

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America, tra la fine degli anni Novanta e gli albori del terzo millennio. Mark Kerr è una montagna di muscoli costruita per picchiare forte e abbattere avversari nei combattimenti di arti marziali miste, dove vige un laissez-faire quasi totale: pugni, calci, ginocchiate. Su ring o in gabbia, tra kung-fu, boxe, lotta si rischia tutto, il sangue è protagonista e il pubblico paga volentieri i gladiatori. Educato come un lord, Mark (Dwayne Johnson) è un prototipo internamente fragile del peggior darwinismo socioculturale made in Usa, se vinci sei un re, se perdi sei un fallito.



“The Smashing Machine” - traducibile con ordigno distruttivo - del newyorchese Benny Safdie, regista di solito in coppia col fratello Josh, è un film duro, verista, che non ama le ellissi e non lesina in fisicità dai toni feroci e colpi probiiti, mentre con passo a tratti documentaristico ci accompagna in un mondo al maschile di palestre, sudore, vecchi campioni diventati allenatori, come Bass Rutten, che interpreta se stesso, trasferte in Giappone, nuova mecca dei combattimenti con ricchi trofei. Ai tempi, l’UFC statunitense, l’Ultimate Fighting Championship in gabbia ottagonale con sede a Las Vegas, non si era ancora imposta e le regole d’ingaggio erano lasche, ci si menava insomma con tutto l’accanimento necessario per portare a casa borse di svariate centinaia di migliaia di dollari.



Kerr è un pioniere e mette al tappeto gli avversari a raffica. Grazie ai suoi muscoli deltoidi grandi come alettoni vive a Phoenix in una villa con Dawn (Emily Blunt, al solito incisiva), una bella coppietta all’inizio serena. Lui si prepara i beveroni iperproteici e poi insieme vanno a divertirsi ai Demolition Derby, uno spettacolo molto apprezzato dai deep americans bianchi, una sorta di folle rodeo con auto e autocarri che si investono. Contenti loro.



Mark Kerr è stato una vera leggenda delle arti marziali miste, lo restituisce sullo schermo l’ex leggendario wrestler Dwayne Jonson, (“Jumanji”, “Fast&Furious”), reso irriconoscibile da un prodigioso trucco prostetico capace di resistere a performance estreme. Quanto a professionalità e mezzi - “The Smashing Machine” è costato 50 milioni di dollari - il cinema degli States non scherza e se c’è da raccontare una parabola umana e sportiva eccelle, magari su binari fin troppo classici e gli esempi sono mille, ma qualche emozione la regala sempre.



Stavolta il gigante invincibile dovrà cadere nella polvere per risollevarsi in una vita diversa e più consapevole. Dannazione e redenzione? Ma sì, è uno dei versanti meglio spendibili del sogno americano, per altri versi gonfiato e servito in mille salse e ormai vigente soltanto per illudere più persone possibili che l’arrampicarsi sulla scala del dollaro e di un metastatico consumismo assomiglia alla felicità. Tutte cose che il quarantenne Benny Safdie sa benissimo e lo dimostrano pure i suoi lavori precedenti in cooperazione col fratello Josh, da “Good Time” a “Diamanti Grezzi” (occhio a un inedito Adam Sandler), quest’ultimo con produzione esecutiva di Scorsese. Se cercate una New York lontana tre galassie da Manhattan ecco un paio di film giusti tra rapine e sociopatici, teppisti e mille sforzi per non affondare.



Il Big Jim molto big e la Barbie con unghie laccatissime vivono una storia d’amore piuttosto normale e presto conflittuale. Lei spende almeno un’oretta al giorno per il make-up ma sa leggere nel cuoricino di Mark, lo vede assente, disilluso dopo una batosta in Giappone, è la prima sconfitta e l’ha subita da Ihor Vovchanchyn (lo interpreta Oleksandr Usyk, pugile campione del mondo dei pesi massimi), un picchiatore ucraino con gli occhi inespressivi da squalo, un tipino a cui, personalmente, in qualsiasi discussione daremmo sempre ragione a prescindere.



Che combina Mark? Si bomba di oppiacei antidolore, è violento mentre di solito ha un carattere di marzapane, rompe porte come fossero wafer, si confessa piangente all’amico e collega Mark Coleman (Ryan Bader, una stella americana delle arti marziali miste). Dawn tiene botta, il fighter si disintossica. Tornerà in vetta?



“The Smashing Machine” è anche un omaggio affettuoso a questi omoni del ring e della gabbia, bastardi nelle schermaglie al tappeto e cavallereschi a fine incontro, mai sicuri di tornarsene nello spogliatoio sulle proprie gambe, accompagnati dal trainer e dal medico di fiducia sempre all’erta con ago e filo. Il regista ha voluto sul set autentici fighters e non era semplicemente per alzare il livello di verosimiglianza. Poi, nessuno come Dwayne Johnson in groppa al cavallo di una giostra per bambini poteva rendere suggestivamente l’idea del colosso felice di riscoprirsi pulcino.



Distribuito da I Wonder Pictures di Andrea Romeo, prodotto da A24, casa indipendente già carica di successi, il film, Leone d'argento per la miglior regia all'82ª Mostra del Cinema di Venezia, è stato girato in pellicola da 16 mm. Alla fotografia, decisamente virata su luci d’ambiente conficcate nella storia, Maceo Bishop, alle musiche volutamente enfatiche Nala Sinephro. Insieme alla regia, Benny Safdie ha firmato soggetto, sceneggiatura e montaggio. Massima libertà all’autore, pare giusto.






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