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Adriano Sereni (Valerio Mastandrea), famoso avvocato romano in disarmo, immerso in una solitudine quasi selvatica e oppresso da un feroce senso di colpa, incrocia una piccola tribù di ragazzi decisi a ridar vita a un antico vigneto in Toscana. Il vino nuovo benedirà una rinascita interiore e una maternità fuori dagli schemi. In “Cinque secondi”, Paolo Virzì mostra ancora una volta di conoscere in tutte le sfumature l’arte della commedia, la sa far funzionare da epigono mai indegno di un genere in cui siamo stati maestri, da Monicelli a Scola.
Il suo tocco è classicamente agrodolce, ogni sorriso va a braccetto con una pena e il regista mette in attrito mondi culturalmente, socialmente lontani (pensiamo a “Ferie d’agosto”, ma è un filo rosso nella sua filmografia), qui un professionista più che cinquantenne separato da una moglie dell’altissima borghesia e gli spiriti ribelli di un gruppo di millennial impegnati a galleggiare in un sistema che sfrutta insensatamente anche il suolo e le risorse più preziose, tema centrale in “Siccità”. E piace ritrovare conferma che quell’ “Ovosodo” del ‘97 che non andava né su né giù, quello spirito non conciliato con la grande macchina sempre pronta macinare i più deboli, è rimasto lì e Virzì continua a tenere gli occhi aperti.
Chiuso e restio a qualsiasi contatto, Adriano vive nelle ex scuderie riadattate a b&b di fronte alla villa dei conti Guelfi, inabitabile e in vendita. In procinto di abbandonare la società di avvocati che porta anche il suo nome, non è molto amico della doccia e mangia direttamente dalle scatolette. Ammesse solo le visite della collega e amica Giuliana (Valeria Bruni Tedeschi), apertamente innamorata di lui. Motivo di tanta misantropia l’incidente mortale al lago della figlia ventenne Elena (Caterina Rugghia, un ottimo esordio), malata di Sla, una condanna. Era, insieme al fratello adolescente Matteo, col padre. Un weekend ogni quindici giorni, per Adriano l’occasione di ricostruire momenti sereni accanto ai figli. Accusato dalla moglie Letizia (Ilaria Spada) di omicidio colposo, originato da un’imperdonabile distrazione, deve andare a processo. Anche solo cinque secondi possono risultare fatali.
A far uscire dalla tana l’orso Adriano riesce dopo serie difficoltà Matilde (Galatéa Bellugi), figlia del conte Guelfi. Ha occupato abusivamente la villa, dove ha vissuto i primi sei anni di vita, con i suoi compagni di ventura. Sono ragazzi e ragazze di una generazione che non rinuncia a cercarsi una strada, diffidano - in modo un po’ manicheo - di un mondo adulto che poco o nulla comprende la loro scelta di vita comunitaria e spesso non sa che farsene di loro oppure li arruola con stipendi ridicoli. Sono enologi, botanici, biologi, la terra dei Guelfi è abbandonata, le vecchie viti possono essere risanate, i campi coltivati. Virzì tocca un nervo giusto, a parte una certa vena caricaturale nel dipingere i “giovani” come neo-hippy molto new age, schitarranti, allegri e sfacciati, non privi di un certo complesso di superiorità. E non aiutano le musiche a corredo, abbastanza melense. Lo sguardo del regista comunque è, nell’insieme, complice e tenero.
Matilde è incinta e ha liquidato il compagno (si chiama Nebbia e infatti si dirada per poi ricomparire), è contraria ai legami ufficiali, ha temperamento fumantino e accusa Adriano di essere un perfetto rappresentante del patriarcato perché la invita, nel suo stato, a essere prudente. Il conte suo padre, dopo anni dissipati, si è suicidato e l’incontro con Adriano la aiuterà a elaborare un lutto negato, mentre l’avvocato, grazie lei, riproverà tenerezza e troverà la via per riavvicinarsi al figlio che lo evitava. Matilde e Adriano, due caratteri ispidi, si ammansiscono a vicenda aiutandosi a lenire il dolore delle reciproche perdite: lei incrociando un adulto capace di accudire, lui una “figlia” con un futuro davanti.
“Cinque secondi” si fa apprezzare non tanto per i dialoghi, piuttosto essenziali a parte il toccante sfogo liberatorio di Adriano al processo, quanto per la tenuta del viaggio narrativo, un “continuo” catturante per una regia discreta, mirata sulla sofferta evoluzione del protagonista. Mastandrea è strepitoso, trattenuto, intenso, a rendere la complessità di un uomo in transizione dal disprezzo verso chi ritiene inferiore alla consapevole mitezza di una maturità autentica. Sono accenti nuovi per un film di Virzì, quasi a sfiorare il dramma. E a far aleggiare il tema dell’eutanasia.
Galatéa Bellugi - la ricordiamo in “Gloria!” di Margherita Vicario - è elettrica il giusto mentre va a merito del regista, anche sceneggiatore con Francesco Bruni, il disegno della tormentata Giuliana su misura di Valeria Bruni Tedeschi: una donna stropicciata dalla vita, innamorata delusa, di una sincerità commovente. Non è un caso se diretta da Virzì dà il meglio, già era successo con “La pazza gioia”, viaggio ai confini tra indocilità e follia al fianco di Micaela Ramazzotti.
Nei suoi lavori il regista livornese è solito spingere i personaggi nodali al limite della rottura e pure oltre, immergendoli in un contesto di aperta critica, prima ancora morale che politica, a una società inautentica e inaridita dal denaro, lesiva di diritti, oscenamente competitiva, vedi “Il capitale umano” e “Tutta la vita davanti” del 2008 con la bravissima Isabella Ragonese, tratto dal romanzo “Il mondo deve sapere” di Michela Murgia, istantanea feroce del mondo dei call center, vivai di cottimo puro. Senza lasciare per strada, naturalmente, il tratteggio ironico e spietato di caratteri grotteschi, goffi, smisurati, altrimenti le sue che commedie sarebbero?
“Cinque secondi”, è in sala con Vision Distribution. Un’ora e mezza o poco più di sicura appetibilità.
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