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MODERNA DUSE
QUELLA DIVINA
SOPRA LE RIGHE

di ANDREA ALOI

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L' “inutile strage” della Prima Guerra Mondiale si è compiuta, sale l’onda delle camicie nere. La Divina Duse (Valeria Bruni Tedeschi) da anni non calca le scene, minata dalla tisi che si guarda bene dal curare, è oppressa dai debiti ma non sa resistere al richiamo della scena, del teatro, un magico “altrove” come via gloriosa di fuga dalla malattia. È, si sente più grande della vita che le resta, vuol ridonare al pubblico, a un’Italia che macina i lutti del conflitto, la grazia dell’arte.



“Duse” di Pietro Marcello, regista molto a suo agio nel clima primonovecentesco (“Martin Eden”, “Le vele scarlatte”) restituisce della moderna Eleonora, donna sentimentalmente vivace, imprenditrice teatrale, regista e anticipatrice di una recitazione fondata sull’immedesimazione, i lati nevrili e un irriducibile slancio verso sogni - ormai irrealizzabili - in nome di fama e amicizie. In primis quella con D’Annunzio (Fausto Russo Alesi), di cui è stata amante oltre che incarnazione drammaturgica, da “Francesca da Rimini” a “La figlia di Iorio”.



Insomma, una lettura della Divina seducente e volutamente parziale, sorretta dalla prova senza risparmi emotivi di Bruni Tedeschi e svolta da Marcello intercalando fluentemente fiction e brani documentari colorizzati, dove il treno che attraversa il Paese con la salma del Milite Ignoto tra due ali di folla fa da basso continuo e memoria di una tragedia passata che ne annuncia un’altra sotto il segno di Benito Mussolini.



La Duse al principio pare pronta a tornare in sella, la sua Elide nella messinscena della “Donna del mare” di Ibsen è un trionfo, sorretto da una compagnia d’alto livello, col sanguigno Ermete Zacconi (Mimmo Borrelli) e il sulfureo Memo Benassi (Vincenzo Nemolato), adoratore della Divina. Alle prove, facendo leva sull'aspro passato di una giovane attrice, Cecilia Rinaldi (Gaja Masciale), le estrae dall’animo partecipazione e dolore, forse la scena più forte del film, un esempio di grandissimo teatro-cinema.



Eccola, la Duse è tornata. Spinta dai consigli di Sarah Bernhardt (Noémie Lvovsky, per lei solo una scena, ma quanta classe) verso un teatro incardinato nel tempi nuovi e consapevole di come una guerra cambia gli uomini, Eleonora mette in scena, fidandosi troppo delle sue impressioni velate da entusiasmo, “Ecuba delle trinceee”, una indigeribile, tromboneggiante pièce di tal Giacomo Rossetti Dubois (Edoardo Sorgente, il personaggio è immaginario). Gli abiti di scena di Mariano Fortuny ispirati alla vague futurista non bastano a salvare “Ecuba delle trincee”, è un fiasco clamoroso. La Duse cerca allora una sponda in D’Annunzio ed è una delle sottostorie che molto arricchiscono l’accurata tessitura di Pietro Marcello.



Antichi amanti, carichi d’anni, hanno corpi cigolanti e se Gabriele legge con disprezzo il fascismo “comodo” ormai ai vertici del potere, degno dell’Italietta piccolo borghese disprezzata dal Vate, Eleonora, nonostante le avvertenze di Matilde Serao, a Mussolini crede, ancora di più quando ripiana i suoi debiti e le concede un vitalizio. A consolare con dedizione il prepotente narcisismo della crepuscolare Duse è la governante Désirée (Fanny Wrochna, una delle note liete del film), vive in umile simbiosi con la Divina, è l’unica presenza “domestica” accettata, a differenza di Enrichetta (Noémie Merlant), figlia di una relazione infelice. La giovane donna sa bene di non aver mai fatto parte dei progetti della madre, cerca egualmente di restarle vicina, accorrendo da lei in occasione di una crisi respiratoria che potrebbe risultare fatale.



Elenora sembra ancora in scena quando regala enfaticamente a Enrichetta parole dolcissime: “Tu sei l’amore”, senza crederci davvero. Tanto che, dopo un profluvio di secrezioni umorali e lacrimali in primissimo piano, la regina del teatro, abbandonata per l’ennesima volta la figlia dolente, quasi un relitto scomodo nel proprio fenomenale transito terreno, si avvia all’ultimo viaggio con la fida governante-adorante.



In “Duse”, girato in pellicola, non c’è mezza inquadratura senza perfetto calibro (anche il regista si è messo dietro la macchina da presa) e la narrazione viaggia armoniosa e libera rispetto a date ed eventi, confermando nell’utilizzo del found footage una delle cifre fondanti del cinema di Pietro Marcello fin dal sorprendente esordio col doc “La bocca del lupo”. Dopo due ore si esce comunque di sala con l’impressione che buona parte degli attori, a parte il Benassi di Vincenzo Nemolato, vadano sopra le righe, continuando a “recitare” anche fuori dalle scene teatrali.



Un overacting, un interpretare calcando la mano esplicitato soprattutto da Valeria Bruni Tedeschi, con una sovrabbondanza e una performance attoriale di raro virtuosismo. E non si discute qui della maggiore o minore aderenza al personaggio (Eleonora non si truccava mai per la scena, nel film lo fa) bensì di misura e dismisura, di un eccesso che paradossalmente segna una perdita. Del cast femminile, Noémie Merlant tocca nel profondo, Fanny Wrochna è ben calata nel ruolo della governante gestito in sottrazione. Da applaudire il lavoro sui costumi di Ursula Patzak, sempre a suo agio nel clima d’inizio Novecento (vedi “Qui rido io” di Martone) e in sceneggiatura dello stesso regista con Guido Silei e la drammaturga Letizia Russo. La coproduzione è italo-francese con Palomar, Rai Cinema e PiperFilm che distribuisce.






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