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CITTÀ DI PIANURA
TRISTE E NOMADE
IL NOSTRO EAST

di MASSIMO CECCONI


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Più che il Far West è il Vicino Est a ergersi a protagonista assoluto di “Le città di pianura”, film alquanto alcolico di Francesco Sossai. Due spiritelli irridenti, un po’ gaglioffi e un po’, a modo loro, creativi intraprendono un viaggio assai etilico nella pianura che prelude alle belle montagne del Veneto, sempre presenti là sullo sfondo. A bordo di una elegante Jaguar vintage, Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano detto Dori (Pierpaolo Capovilla) caracollano tra un locale e l’altro, tra una bevuta e un’altra ancora, con colonna sonora country, nella pianura piatta delle loro vite, in attesa di incontrare il loro vecchio amico Genio (Andrea Pennacchi) di ritorno dall’esilio in Argentina.



Anni prima i tre figuri lavoravano in un’azienda produttrice di occhiali da sole dalla quale avevano il vizio di sottrarre alcune esemplari per un loro piccolo commercio sotterraneo. Il malloppo ricavato dalle loro imprese era stato sotterrato da Genio in aperta campagna, prima di prendere il largo verso l’Argentina per sfuggire ai rigori della legge. L’illusione dei tre amici è ora quella di recuperare il conquibus ma questa è solo la sottotraccia della narrazione preminente che invece si concentra sulle scorribande notturne di Dori e Carlobianchi che incrociano sulla loro strada Giulio (Filippo Scotti), un giovane studente meridionale di architettura alquanto impacciato e spaesato, coinvolgendolo nel loro divagare.



Le scorrerie che ne conseguono li portano a bere in probabilissimi locali pubblici di provincia, a mangiare lumache in trattoria e a esibirsi in cazzeggio in un’antica villa decadente, persino coinvolti nel fare i conti con una fantasmagorica nuova autostrada Lisbona-Treviso-Budapest che minaccia di deturpare ulteriormente un paesaggio già abbondantemente compromesso da anni e anni di interventi urbanistici quanto meno discutibili.



In abbondanza di grappini, cicchetti, vino sfuso, cocktail vari i tre bighelloni, in un’avventura di strada speso affidata alla Divina Provvidenza e a foglietti che sostituiscono mappe e navigatori, consumano i loro giorni e le loro notti ognuno alla ricerca del proprio perché. A conclusione del viaggio, che per Giulio assume l’enfasi di una sorta di viatico formativo, i tre picareschi personaggi si ritrovano a omaggiare la morte visitando la Tomba Brion, monumentale memoriale funebre, sperduto nella pianura oltre la quale si perde l’orizzonte. Di cosa sia successo del malloppo lo si lascia scoprire allo spettatore. Da segnalare la pregevole comparsa di Roberto Citran che interpreta mirabilmente la categoria dei padroncini.



Opera seconda di Francesco Sossai, presentata nella sezione 'Un Certain Regard' del Festival di Cannes 2025, “Le città di pianura” è certamente più efficace di un saggio sociologico per descrivere la pancia molle di una provincia italiana sfarinata e impoverita dalla mancanza di riferimenti solidi e coinvolgenti e che esprime solidarietà per il prossimo più vicino, senza tensioni verso rapporti più ampi e durevoli, alla perenne ricerca del tutto e subito.



La pianura sembra guardare da lontano le montagne senza mai avere la forza di raggiungerle o di eguagliarle. Assolutamente appropriati gli interpreti, carichi del necessario disincanto ma anche di una ingenuità disarmante che li porta ad affrontare il mondo con la necessaria impudenza per sopravvivere alle angherie e al dileggio, in un crescendo di bischerate avvolte nella malinconia per difendersi dall’impotenza e dall’oblio. Godibile anche se qua o là la narrazione perde qualche colpo. Un grappino dopo l’altro, tristezza per favore va’ via.

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