“Voglio andare a vivere in campagna”, cantava nell’altro secolo Toto Cutugno, rimpiangendo i bucolici luoghi natii. In molti, soprattutto giovani straccati da esangui prospettive e dalle antisocializzanti metropoli l’hanno fatto davvero, tanto che da tempo si segnalano ritorni ai piccoli paesi e alla natura, inversioni di marcia a ripopolare zone appenniniche, a riscoprire antichi mestieri. In pochi ma assai motivati hanno puntato alla pastorizia, lavoro duro, ideale per mettere alla prova la solidità di una “vocazione” che assume di per sé venature politico-sociali. Come dice Mathyas (il canadese Félix-Antoine Duval), giovane pubblicitario di Montréal, appena arrivato in Provenza, si tratta di una “questione esistenziale”: da un ufficio qualunque a un gregge, non per fare il pastore, ma per esserlo, completamente. “Fino alle montagne” della cinquantenne Sophie Deraspe, pure lei canadese, racconta, senza lisciare mezzo pelo all’ecologismo sentimentale, un’avventura dura e cruda, basata sul romanzo autobiografico di Mathyas Lefebure “D'où viens tu, berger?”, di dove arrivi, pastore?
Nel paesello provenzale dove è andato a cercare un ingaggio, il nostro aspirante pecoraio se lo sente chiedere spesso e la risposta mira a sciogliere diffidenze: “Vengo dal Québec, non sono parigino”. Un posto lo trova - pagato in nero, alloggiato in una catapecchia - da un allevatore coi nervi, più che tesi, bruciati da anni di difficoltà economiche, corroso da quel mestiere. Quando qualcosa gira storto, dà di matto, basta che una pecora si ammali e la paura del contagio lo trasforma, minaccia, insulta, spara col fucile da caccia. Mathyas apprende i rudimenti del mestiere - ricondurre un gregge al recinto o prendere una pecora e costringerla a terra per darle una medicina - dal maghrebino Ahmed (Michel Benizri), cinquantenne logorato da una vita separata dal mondo. Diventano amici poi una mezza frase del ragazzo sulla presenza di Dio in ogni luogo e in ogni persona, anche le prostitute che frequenta Ahmed, scatena in quest’ultimo una reazione pesante, da devoto di Allah e senza alcuna mediazione culturale, non può transigere o tollerare un agnosticismo che per lui è pura empietà.

Mathyas è solo coi libri sulla pastorizia acquistati al paese e il brutto ricordo di quando Ahmed ha dovuto sgozzare una pecora ferita e utile ormai solo per la carne. Sta iniziando a capire che i sogni non si pretendono, ma si guadagnano e si pagano, in molti modi. Lo consolano le lettere, una specie di diario, che spedisce a Élise (Solène Rigot), impiegata dell’ufficio comunale cui si era rivolto per legalizzare la sua presenza in Francia. Impossibile. Avrebbe dovuto ripartire per il Canada e tornare coi documenti di espatrio, ma i ponti li ha tagliati, indietro non torna. Quel ragazzo dolce e ostinato l’aveva colpita, le missive hanno fatto il resto e così lo raggiunge dall’allevatore balzano, presto lasciato ai suoi furori. Adesso a cercare un altro sentiero di vita sono in due. La regista a questo punto ha già messo in chiaro che gli psicologismi non le interessano, punta sui fatti, il buio e la luce, la terra secca avara d’erbe, la sporcizia e il cibo spartano, l’obbligo di tenere alle pecore senza cedere alle emozioni. Sono animali che devono dare un reddito, affezionarsi è un lusso.

Élise e il neo-pastore hanno fortuna, vengono assunti da Cécile Espriroux (Guilaine Londez), il cane Hola compreso, che è stato adottato dalla coppia e con le pecore ci sa fare. Cécile ha garbo e apprezza il lavoro di Mathyas, tanto da affidargli la guida del gregge per la transumanza verso l’alpeggio estiivo. Sono più di ottocento pecore, la sfida è tosta per uomini e cani-pastore, formidabili colleghi, miscela perfetta di esperienza e istinto. Lassù, in una baita isolata, davanti a uno scenario solenne Élise e Mathyas si “sposano”, testimone la montagna. È l’acme di una unione mistica con la Natura, una fusione alla Thoreau che presto sfuma in una piccola-grande tragedia con la sanguinosa scorribanda di un branco di lupi: eccola, è la Natura leopardiana che assiste indifferente agli umani dolori. Mathyas aveva appena osservato con fierezza le mani provate dal lavoro, ora è disperato: è forse un buon pastore quello che non sa difendere il suo gregge? Sopporterà il colpo? E ha dunque ragione Dudu (David Ayala), un esperto pastore duro e puro contro l’autorità e la burocrazia, a gridare che i veri ecologisti sono quelli che sparano ai lupi e non quelli che li proteggono?

Sophie Deraspe già nel precedente “Antigone” aveva affondato la lama nel tragico conflitto, che pure2 talvolta esplode, tra Legge e Giustizia, tra codici e umanità con la protagonista sedicenne Antigone arrivata in Canada dall’Algeria a commisurare il sogno dell’Occidente con la realtà di una vita ai margini del benessere. E pronta a combattere per salvare il fratello arrestato senza motivo dopo un incidente fortuito con la polizia. Un esempio di cinema che non fa sconti, pure visivamente aspro, essenziale, replicato nelle due ore di “Fino alle montagne”, riuscita coproduzione franco-canadese. Siamo nei paraggi di “Un’ottima annata” (2006) di Ridley Scott, sempre Provenza ma giù, tra i vigneti inaspettatamente ereditati da Max (Russel Crowe), broker della City londinese: simile il conflitto culturale tra città e campagna e l’interferenza di un amore per Fanny (Marion Cotillard), però nessuna nube incombe sul radioso futuro della coppia, mentre in “Fino alle montagne” ben si comprende che Élise e Mathyas continueranno a guardare selve, monti e cielo con occhio vigile e preparandosi alle sfide della Natura.

La Grande Madre è severa e noi, formichine devastanti, non ce lo ricordiamo abbastanza. Lo spiega in “Into the Wild” (2007) di Sean Penn la toccante e drammatica storia vera del giovane americano Christopher McCandless a caccia dell’Assoluto in Alaska con spirito neo-francescano. Un film destinato a durare al pari, tornando all’ostica vita dei pastori, di “Il vento fa il suo giro” (2005) primo lungometraggio di Giorgio Diritti, protagonista Philippe, passato a governare capre dai Pirenei francesi al paese quasi spopolato di Chersogno, nella nostra Val Maira, nel Cuneese, storia di una sconfitta non per mano della Natura ma di una mancata integrazione in un mondo difficile, dove l’inesorabile difficoltà della vita indurisce da secoli gli animi della gente.

“Fino alle montagne”, consigliatissimo, è distribuito in Italia dalle Officine Ubu di Franco Zuliani.