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MELTING POT
IN CUCINA
ARAGOSTE
A MANHATTAN

di MASSIMO CECCONI

Siamo alle solite, chi attribuisce i titoli italiani a film stranieri riesce sempre a sorprendere per insipienza. Il titolo originale “La cocina” traduce invece perfettamente il titolo del dramma teatrale “The Kitchen” di Arnold Wesker, ambientato in un ristorante inglese alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, a cui palesemente si ispira.



Ai tempi nostri, ma comunque prima del secondo mandato di Donald Trump alla presidenza USA, la scena del film è riallestita nel cuore di Manhattan, nel ristorante 'The Grill' a Times Square. Realizzato in sfavillante bianco e nero dal regista messicano Alonso Ruizpalacios, già vincitore nel 2018 a Berlino di un Orso d’argento per la sceneggiatura del suo “Museo-Folle rapina a Città del Messico”, il film si concentra e si consuma nella cucina di un grande ristorante newyorchese per turisti, dove vengono servite anche le aragoste dopo che sono state esposte in un grande acquario che ospita anche una copia in miniatura della Statua della Libertà.



Negli ambienti un po’ claustrofobici di un sotterraneo, sono collocate le postazioni dei vari cuochi, ognuno specializzato nella preparazione di una pietanza, oltre a un manipolo di aiutanti, di lavapiatti e di cameriere che, nelle ore di punta del servizio, fanno ininterrottamente la spola tra la cucina e la sala del ristorante. Su tutti, troneggia un figuro che viene chiamato chef che, oltre a inveire contro i suoi sottoposti, si lascia andare in qualche occasione a parodistiche interpretazioni di sapore estemporaneo. Le nazionalità del personale di cucina sono eterogenee anche se domina per lo più la lingua spagnola di messicani o portoricani, con presenza anche di nordafricani e di bianchi e neri nativi americani.



In questa babele di linguaggi e di culture si scaricano le tensioni di un luogo di lavoro logorante e stressante. C’è anche spazio per una vicenda amorosa, caricata più da passione che di affetto, che sarà una delle molle che scatenerà il delirio finale. La presenza inquietante di un padrone avvezzo a usare bastone e carota e un presunto ammanco di cassa che scatena una sorta di maliziosa caccia al ladro fanno da scenario a una sorta di semplificazione della lotta di classe tra un potere commerciale che non può essere messo in discussione se non da Dio e una pletora di reietti, molti dei quali “godono” dello status di clandestini.



Si intrecciano così passioni e amicizie, volano coltelli e parolacce che ognuno coniuga nella propria lingua, sino all’esplosione finale di una carica fisica micidiale con cui si consuma l’escalation della tensione del dissenso, nuotando in un mare di bibita melensa.



“Aragoste a Manhattan” è un film dichiaratamente politico che raccoglie, prima di farle esplodere, tutte le frustrazioni e le repressioni cui sono soggette persone che, attraverso il lavoro, cercano il riscatto alle loro vite vilipese. Il ritmo è incalzante, la fotografia accompagna immagini a tratti forsennate per rispettare i tempi e i ritmi di una ritualità che è tutta protesa a soddisfare le esigenze dei clienti, per quanto insulse esse siano.



In una pausa del lavoro, un piccolo gruppo di persone racconta i propri sogni. E c’è chi si inventa una favola che poi dona il senso estremo al finale del film. L’America di Trump è servita, Ruizpalacios dirige con forza un gruppo di attori motivato e coinvolto che sa donare al film una vitalità spesso selvaggia, sempre molto umana. Energia pura. Un film che sarebbe un peccato mancare nel panorama amorfo del cinema di oggi.

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