Qualche mese nella vita di Goliarda Sapienza, scrittrice irrequieta e fragile il cui valore letterario verrà riconosciuto dalle patrie lettere con colpevole ritardo. Tratto con libertà dai suoi romanzi “L’università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio”, l’ultimo film di Mario Martone ci trasporta in una calda Roma estiva del 1980 in cui Goliarda Sapienza (Valeria Golino), dopo l’esperienza del carcere, è alla disperata ricerca di un lavoro qualsiasi, ancorché umile, per tentare di riprendere in mano il filo logoro della sua travagliata vita. Era finita nel carcere romano di Rebibbia dopo avere compiuto un furto di gioielli ai danni di una sua amica, certo per bisogno ma anche per ripicca e spregio nei confronti del mondo salottiero e vano che la sua amica rappresentava.
Nel complesso universo del carcere conosce Roberta (Matilda De Angelis), viso d’angelo con precedenti sia per malavita che per passione politica, e Barbara (Elodie) a cui il malessere della detenzione suggerisce di tagliarsi le vene. Tra le tre donne, nel coro variopinto delle altre detenute, si stabilisce una complicità ambigua che naviga tra l’attrazione fisica e la maternità vagheggiata, rappresentata da Goliarda che delle tre è la più anziana e la più colta.
Il film, con frequenti sbalzi epocali, si definisce in prima, durante e dopo il carcere, cercando di restituire angosce, incertezze, sogni e tormenti di tre donne che navigano a vista anche se animate da una forte componente di cupio dissolvi mescolata alla volontà di sopravvivere, se non di vivere. L’esperienza del carcere, che per Goliarda è anche un’acquisizione di elementi per le sue ambizioni di scrittrice, è determinata dal contradditorio concetto del “fuori” che da “dentro” è anelato, mentre da “fuori “ è condizione per scoprire quello che “dentro” esiste.
Le scorribande notturne, anche grazie al furto di un’automobile, permettono a Goliarda e Roberta di approfondire il loro rapporto in una Roma che offre loro tutto il suo benevolo abbraccio. La doccia collettiva delle tre donne, nel retrobottega di una piccola profumeria di periferia attraverso cui Barbara è alla ricerca di un suo personale riscatto, segnala con pudicizia la consistenza di un rapporto non superficiale anche se soprattutto funzionale alla salute fisica e mentale delle tre protagoniste.
Nel vacillante incedere della trama è di rilievo il canto corale che un gruppo di ex carcerate improvvisa “fuori” dalle mura di Rebibbia a cui accoratamente rispondono, da “dentro”, le detenute. Il viaggio verso il mare su una spider rossa che le tre donne intraprendono grazie a un equivoco amico riassume un ulteriore concetto del “fuori” con il vento che scompiglia i capelli delle donne e fissa i sorrisi sui loro volti. Ma la libertà più autentica è comunque un’altra cosa.
Il film di Martone, con il contributo in sceneggiatura di Ippolita Di Majo, si avventura sullo scivoloso pendio di fornire una lettura plausibile di un personaggio talmente sfaccettato e scomodo a cui la serenità ha arriso solo dopo la morte. In questo tentativo, Valeria Golino sembra sopraffatta dall’incombenza di interpretare le complessità di Goliarda Sapienza, mentre Matilda De Angelis e Elodie sono più convincenti nel disegnare i caratteri di due giovani donne del popolo incapaci di trovare una propria identità compiuta, anche per mancanza di strumenti adeguati.
Appropriata la fotografia non invasiva di Paolo Carnera e la ricostruzione di una Roma una volta tanto non turistica. Probabilmente inutili le didascalie iniziali e finali, così come le immagini della vera Goliarda Sapienza che risponde con passione alle provocazioni di Enzo Biagi in un programma televisivo dell’epoca. Con i suoi 115 minuti, che comprendono anche qualche noiosità di troppo, “Fuori” lascia in bocca un sapore irrisolto.
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