di
ANDREA ALOI
“Io sono ancora qui” (“Ainda estou aqui”) del sessantottenne Walter Salles è insieme coinvolgente dramma familiare, storia vera di forte dignità civile e affilato promemoria sui guasti disumani della dittatura militare che ha infestato il Brasile tra il ’64 e l’85, uno dei tanti paesi dell’America Latina piagati da regimi assassini fomentati in quegli anni dal Plan Condor, un vero e proprio sistema repressivo coordinato sotto l’egida degli Stati Uniti.
Rio de Janeiro 1970, la dittatura militare sta mostrando la sua faccia più feroce e rastrella oppositori, semplici sospetti, tra di loro l’ex deputato laburista Rubens Paiva (Selton Mello), già incarcerato ed esiliato in passato poi tornato al lavoro di architetto. Gli sgherri del generale Médici gli arrivano in casa per sequestrarlo e non tornerà mai più. Dal Paradiso all’inferno in uno squillo di campanello, frana il mondo di una felice famiglia borghese, villa vicina alla spiaggia di Ipanema, una bella tribù di cinque figli. E inizia la lotta della moglie Eunice (Fernanda Torres, un volto indimenticabile), a sua volta incarcerata due settimane, per conoscere il destino di Rubens, una tormentata battaglia che durerà quasi una vita, fino a quando - a dittatura conclusa da undici anni - riceverà il certificato di morte del marito e piangerà di gioia. Quel foglio di carta è il segno di un Brasile che inizia a farsi un esame di coscienza, riconosce il minimo del rispetto a una delle migliaia di vittime del regime.
Girato in pellicola con inserti in super 8 per restituire un’intimità familiare e il mood di un’epoca, “Io sono ancora qui” colpisce per l’assurda, quasi inconcepibile, compresenza di una società brasiliana in pieno boom economico, moderna e colta, dal cinema di Godard e Antonioni alle vibrazioni del cinema novo brasiliano, dalla musica rock alle nuove tendenze della cultura musicale tropicalista di Os Mutantes, Caetano Veloso e Gilberto Gil, e di un crudele apparato del terrore fuori da qualsiasi legge pronto a macinare esistenze, a gettare politici, sindacalisti, studenti in mare dagli elicotteri. Vera Paiva (Valentina Herszage) la prima delle figlie di Eunice, una che alle manifestazioni va senza paura, è a Londra, ospite di amici che hanno pensato bene di allontanarsi da Rio, fanno parte, come Rubens, di una rete di sostegno ai resistenti e alle loro famiglie, non sono militanti che sequestrano ambasciatori in cambio della liberazione di prigionieri politici, la loro è una guerra pacifica ma preziosa.
Lo shock dell’arresto di Rubens è terribile, le cene liete, le giornate in spiaggia, il lessico familiare di ore scaldate dall’amore svaniscono per Vera, le adolescenti Nalu e Maria Eliana pure lei prelevata insieme alla madre dalla polizia, la piccola Maria Beatriz e per l’undicenne innamorato del futebol Marcelo Rubens. Da grande racconterà in “Sono ancora qui” la storia di quegli anni (il libro è uscito in Italia con La Nuova Frontiera), pagine su cui si basa il film di Salles, ai tempi tra i giovani che frequentavano casa Paiva.
Eunice è più di una “madre coraggio”, è l’acciaio che tiene insieme vite, combatte con difficoltà finanziarie, decide di lasciare Rio per San Paolo coi figli (struggente il filmato in super 8 della partenza), riprende gli studi e si laurea in Legge. La ritroviamo nel ’96, l’anno in cui ottiene il certificato di morte del marito, è diventata una militante per i diritti dei nativi dell’Amazzonia, le figlie più grandi sono sposate, Marcelo è costretto in carrozzina da un incidente però combattivo. Poi eccola per l’ultima volta nel 2014, minata dall’Alzheimer ma attorniata dalla sua tribù, folta di nipoti. Ha combattuto la buona battaglia e conservato la fede, per dirla con San Paolo. Ostinata a pensare e difendere un Brasile migliore. Eunice Facciolla Paiva, scomparsa nel 2018, si risparmierà la salita al potere di Jair Bolsonaro, un presidente campione del familismo amorale e venato da schiette pulsioni antidemocratiche.
La libertà non è mai conquistata per sempre, massimamente nel Sudamerica per decenni funestato da regimi instaurati, in anni di Guerra Fredda, non solo per rispondere con la repressione ai moti rivoluzionari prima guevariani e successivamente delle forze della sinistra comunista e socialista, ma per garantire, col pieno gradimento di Washington, una “stabilità” coatta e un passo indietro dei diritti civili, sindacali e politici. Stroessner in Paraguay, Banzer in Bolivia, Il Cile di Pinochet, l’Argentina di Videla e soci, figure queste tristemente cruciali in “Argentina,1985”, ottimo film del 2022 di Santiago Mitre sul primo processo ai capi della giunta militare responsabili di una serie lunghissima di crimini. “Io sono ancora qui”, pur focalizzato su una dolorosa vicenda familiare, s’inserisce in questo filone di cine-testimonianza, sorretto efficacemente dalla sceneggiatura di Murilo Hauser e Heitor Lorega e dalla vibrante fotografia di Adrian Tejido. Tutte e tre le candidature all’Oscar ricevute - miglior film in assoluto, miglior film internazionale e migliore attrice - sono solide e facciamo il tifo per Fernanda Torres, qui sublime per misura in un coinvolgente lavoro di sottrazione.
Avrebbe meritato la Coppa Volpi a Venezia per la migliore interpretazione femminile, andata invece a Nicole Kidman, matura esploratrice della sottomissione sessuale in “Baby girl”. Ha per contro ottenuto il Golden Globe e agli Oscar è in lizza con Karla Sofía Gascón, la transgender spagnola protagonista di “Emilia Pérez”, film con tredici candidature, Demi Moore (“The Substance”), Mikey Madison (“Anora”) e Cynthia Erivo (“Wicked”). Figure femminili lontane anni luce dal bianco e binario Trump Universe, che ci si augura non riesca a fiaccare lo spirito liberal (negli Usa sta per sinceramente democratico e progressista) dell’Academy di Hollywood. Al momento Karla Sofía Gascón è sotto tiro per alcuni post imprudentemente anti-islamici e Fernanda Torres ha dovuto fare ammenda per un video giocoso di 18 anni fa in cui compariva truccata da nera: la black face è ritenuta un insulto razzista e va bene, ma ci sono reati ben più gravi che cadono in prescrizione senza suscitare troppi scandali. Il politically correct retroattivo è un nuovo criterio estetico per giudicare un’attrice? Di sicuro gli Oscar 2025 faranno discutere e chissà cosa ne sarà, Trump regnante, delle due candidature - una a Sebastian Stan come miglior attore, l’altra a Jeremy Strong come miglior attore non protagonista - per “The Apprentice” di Ali Abbasi, impegnato a fustigare senza pietà il rampantismo senza scrupoli del giovane Donald.
A interpretare Eunice anziana, Walter Salles ha chiamato la novantacinquenne Fernanda Montenegro, un tributo alla splendida protagonista del suo “Central do Brasil” nei panni di Dora Teixeira, insegnante in pensione che sottrae il piccolo Josué ai trafficanti d’organi e gli fa ritrovare il padre. Un on the road dolente nel segno del “restiamo umani” nonostante un Brasile di spietata povertà. Da rivedere, come “I diari della motocicletta” firmato da Salles nel 2004 e dedicato agli avventurosi anni di formazione di Ernesto Che Guevara, interpretato da Gael Garcia Bernal. I 137 minuti di “Io sono ancora qui” sono frutto di una coproduzione franco-brasiliana (RT Features, Arte France Cinéma), distribuisce BIM.
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