di
ANDREA ALOI
In un’opera prima italiana benedetta dal coraggio produttivo e dagli spiritelli dell’invenzione possono anche succedere in cento minuti le seguenti inaudite cose: nella primavera del 1800 in un collegio femminile per orfanelle nei pressi di Venezia, da poco passata all’Austria, alcune di loro, ormai ragazze, accendono una rivoluzione a colpi di violino e fortepiano travolgendo le sclerosi estetiche, sociali e mentali dell’Ancien Régime; lo fanno con un ritmo tra opera buffa e pochade più momenti dolenti/introspettivi; le ragazze, combinato al cospetto di papa Pio VII un putiferio grazie al genio musical-profetico di una di loro, non hanno che da perdere le loro catene e se ne vanno in Svizzera a tenere un concerto a casa - meglio, nel celebre salotto - di Madame de Staël, primadonna del pensiero liberale, veneratrice dei principi dell’89 francese.
“Gloria!” ha ritmo, c’è spasso e qualche pausa che si perdona volentieri, è una esplosione ribalda di empowerment femminile due secoli fa. La firma Margherita Vicario, 36 anni, musicista, attrice, cantante, un’artista a tutto tondo, suo nonno era Marco Vicario, regista che aveva fatto il botto nel ‘65 con “Sette uomini d’oro”, un heist movie, un film da colpo grosso insomma, tra il giallo e il rosa, protagonista una semiseria multinazionale del crimine con Rossana Podestà allora moglie di Vicario, Philippe Leroy, Gastone Moschin. E Margherita è pure, rispettivamente, figlia e nipote di Stefano e Francesco Vicario, noti registi tivù. Poi, si può essere ben nati e avere mille relazioni ma senza il pepe del talento si combina poco.
“Gloria!” è un canto sacro, diventa un inno d’emancipazione vittoriosa ante litteram, un crescendo di benigna anarchia che matura sul pentagramma. Nel collegio lagunare Sant’Ignazio, governato dalla occhiuta Fidelia (Jasmin Mattei) con polsino di ferro - non è sveglissima -, dilaga una novella clamorosa: il Pontefice, appena eletto nel conclave veneziano, si recherà in visita all’orfanotrofio e lì assisterà a un concerto in chiesa. Al prete musico don Perlina (un Paolo Rossi molto diavoletto in abito talare) il compito di comporre qualcosina di adatto alla solennità del momento. Così ammonito dal Governatore (Natalino Balasso), il prete con codino prova a mettersi al lavoro ma non combina alcunché. È bilioso, collerico, arrugginito, in un recente passato più propenso ai commerci carnali col damerino infelice Cristiano (Vincenzo Crea) che alla composizione, gli dà qualche brivido solo l’arrivo in collegio di un bellissimo fortepiano, un antenato dei moderni pianoforti.
Il gioiello, parcheggiato in una specie di cantina-ripostiglio, non sfugge a una vivace pattuglia di giovanette del Sant’Ignazio, di musica ne sanno e iniziano le visite notturne al mirabile strumento. Lucia (Carlotta Gamba) è la più educata alla tastiera, le altre si danno da fare con violini e viole da gamba in concerti clandestini dopo il tramonto. Il fascino del proibito prende un sapore di vietatissimo alle fanciulle quando al gruppo si aggrega la muta Teresa (Galatéa Bellugi) che muta non è, ma si fingeva tale per non dover rendere conto di passate violenze, pronte a riproporsi con un matrimonio combinato dal Governatore, sposo promesso un vecchio ciospo da antologia pure strabico. Teresa ha un orecchio musicale assoluto, “sente” e trasforma in sequenze ritmiche i rumori, giunta davanti al fortepiano ne fa scaturire felici sonorità tra pop, jazz, etnico, un mélange fascinoso, da profetessa in musica (la ricordiamo in “L’apparizione” di Xavier Giannoli del 2018 con Vincent Lindon, dove affermava di vedere la Madonna, si vede che i suoi occhioni si prestano a ruoli visionari).
Se don Perlina annaspa e non crea, le ribelli preparano la sortita, con la complicità di Romeo (Elio), uno spicciafaccende di buon cuore. E arriva il giorno fatidico, preceduto dal tentativo di suicidio di Lucia causa amore con un bel giovane che pare non concretizzarsi, salvata nel corpo da Teresa e nello spirito dalla lussuosa voce di Bettina (Veronica Lucchesi, cantante nel duo “La rappresentante di Lista” con Dario Mangiaracina) che improvvisa un song dolce e aspro con le parole iniziali della lettera d’addio del ragazzo. Davanti a Pio VII sarà scandalo e sarabanda, un momento esplosivo che si fa aspettare troppo ed è l’unico momento di “Gloria!” un po’ arrancante. Una stonatura veniale vista la complessiva bontà dello spartito. Al piacevole esito del film danno un apporto significativo la morbida, suggestiva fotografia di Gianluca Palma, i costumi di Mary Montalto (a parte l’uniformità da sartoria più teatrale che cinematografica degli abiti da lavoro delle orfanelle, mentre la loro divisa è azzeccata e scicchissima) e l’attenta ricostruzione storico-musicale, a partire dagli strumenti d’epoca. Sottolineata la prestazione di Paolo Rossi, che governa sorprendentemente a dovere il suo grottesco don Perlina, è da citare, tra le ragazze musiciste, la Prudenza di Sara Mafodda, un volto intenso.
Con “Gloria!”, prodotto da Tempesta di Dario Cresto-Dina e Rai Cinema, in sala con 01 Distribution, Margherita Vicario - anche sceneggiatrice insieme ad Anita Rivaroli e autrice delle musiche originali con Davide Pavanello, in arte Dade - offre un esordio intrigante, frutto di un lavoro (e si vede) meticoloso, condotto con passo artisticamente maturo. E che sta in primissima fila tra i molti, recenti film diretti da registe più (“La chimera” di Alice Rohrwacher, “Mi fanno male i capelli” di Roberta Torre) o meno sperimentate, senza contare i debutti di attrici (Margherita Buy, Jasmine Trinca, Michela Giraud ora in sala con “Flaminia”) approdate alla regia con esiti non sempre esaltanti, a parte il discreto “Felicità” di Micaela Ramazzotti.
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