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LA TERRA
PROMESSA
UN WESTERN
SCANDINAVO

di ANDREA ALOI

C’erano una volta quei film d’amore e avventura che si andavano a vedere la domenica pomeriggio, uscendo alla fine soddisfatti. E ci sono anche adesso. Con “La terra promessa”, tratto da “Kaptajnen og Ann Barbara”, “Il capitano e Ann Barbara” (2020) scritto con tutti i crismi del romanzone storico classico da Ida Jessen, il solido regista danese Nikolaj Arcel torna dopo “Royal Affair”, dramma sentimentale di ambientazione settecentesca, alle vicende del suo Paese e sempre durante il regno del bislacco e mattocchio Cristiano VII, sovrano di Danimarca e di Norvegia. Là tradito dalla consorte Carolina Matilde di Hannover (Alicia Vikander), innamoratasi del medico illuminista Johann Struensee (Mads Mikkelsen); qui sovrano chiacchierato e messo ai margini dagli oscurantisti dignitari di corte, infastiditi dalla sua ultima fissazione, ovvero coltivare a patate le brughiere dello Jutland. Una nociva follia per l’epoca - siamo nel 1775 - quando, a quasi trecento anni dall’arrivo in Europa del prezioso tubero, si dava ancora retta ad assurde superstizioni come quella che le patate portassero la lebbra. Un sogno invece per il capitano ormai in pensione Ludvig Kahlen (sempre Mads Mikkelsen), reduce da lunghe campagne di guerra in Germania e voglioso di conquistare, da profetico colonizzatore, un blasone con l’audace impresa di rendere produttiva una terra inospitale, lassù al Nord.



Un luogo lontano, un “Far West” scandinavo che Arcel racconta rispettando tutti i codici del genere, l’eroe solitario cavallo-munito abituato a parlare il linguaggio delle armi, reduce di guerra, fondamentalmente ispido ma fedele alla legge e non immune dall’amore, immerso in una Natura sconfinata (dalla Monument Valley si passa agli orizzonti brumosi e ai cespugli di erica) e opposto a un cattivo a 24 carati, sadico, infantile, ubriacone, stupratore e può bastare così. Trattasi del nobile Frederik de Schinkel (Simon Bennebjerg), per nulla disposto a facilitare il lavoro di dissodamento pionieristico del capitano Kahlen in terre considerate di sua proprietà. Illegittimamente, perché appartengono alla Corona, ma siamo “a ovest del Pecos” e vige la legge della forza e della sopraffazione.



Il Buono (modernamente tormentato) e l’Antagonista (un soggetto da psicoanalisi), risultate vane le blandizie e le proposte di divisione degli eventuali utili avanzate da de Schinkel, precipitano in un duello senza limiti marcato da una irriducibilità che nasce in una sorte comune. Il titolo originale del film (originale di nome e di fatto, al cinema le terre promesse abbondano) è “Bastarden” ed entrambi tali sono, figli di amori ancillari. Il capitano chiede al sovrano, che acconsente, un possedimento e il titolo di barone se riuscirà nel rivoluzionario intento agricolo, il perfido Frederick non manca mai di sottolineare quel “de” che precede il cognome e attesta la sua nobiltà, acquisita tramite denaro e potere. Nessuno dei due cederà di un passo. Ludvig ospita nella sua cascina due contadini, Johannes (Morten Hee Andersen) e la moglie Ann Barbara (Armanda Collin), fuggiti dalle angherie di Frederick, ha bisogno di braccia e il re gli manda poi anche dei coloni tedeschi, ma il fetente assolda dei “bravi” incaricati di ammazzarne qualcuno per indurli a sloggiare. Questa coltivazione delle patate non s’ha da fare. E il prete Anton (Gustav Lindh), che non si comporta da don Abbondio ma difende i diritti del capitano, verrà preso a pistolettate. Nel selvaggio Jutland non abita la redenzione manzoniana, le acque in burrasca della vita si chetano appena in piccole parentesi di calda umanità che sospendono il caos.



Rimasta vedova - Johannes è stato catturato e torturato a morte al cospetto di Frederik, molto compiaciuto - Ann Barbara giace col capitano, passando dal puro sesso al volergli bene, e insieme alla piccola nomade Anmai Mus (Melina Hagberg), scacciata dai suoi e venuta ad implorare ospitalità alla cascina, ecco nascere una famiglia per caso, più amorevole di tante altre consacrate in chiesa. Un focolare cui non mancheranno traversie, per Anmai, vittima di razzismo e pregiudizi, e per Ann Barbara, decisa a vendicare il marito. Pure Ludvig vacillerà pericolosamente, causa le bieche trame di de Schinkel, facendo patire due donne agli antipodi, la contadina e la nobildonna Edel Helene (Kristine Kujath Thorp) fidanzata del sadicone ma innamorata del capitano: del resto a cinquantotto anni Mikkelsen fa ancora la sua porca figura e le rughe non gli nuociono, anzi. Non dimentico del mestiere delle armi si esibirà perfino in una agile incursione notturna nel campo dei galeotti di ventura, ben coreografata dal regista. Fra diverse peripezie, spunteranno un’alba rosea e i benedetti germogli di patate, secondo le aspettative e la logica di una storia abitata da ottimi e pessimi sentimenti che punta dritto all’esecrazione dei secondi.



Arcel, come già in “Royal Affair”, sottolinea il conflitto di fondo tra arbitrio covato in una mentalità gretta da Ancien Régime e idee moderne, progressive, d’altro canto siamo pur sempre alla fine del Settecento. Ottimo il casting, se Mikkelsen “ruba” lo schermo da par suo colpiscono la Ann Barbara della statuaria Armanda Collin e la Edel Helene della norvegese Kristine Kujath Thorp, interprete di alta sensibilità lanciatissima, già ammirata in “Ninjababy”, di Yngvild Sve Flikke (una commedia intelligente e spassosa di un paio d’anni fa, da recuperare su MUBI e altre piattaforme) e “Sick of myself” di Kristoffer Borgli. A Simon Bennebjerg il compito ben assolto di disegnare il nevrile, odiabile de Schinkel. Arcel si è affidato per la fotografia a Rasmus Videbæk, suo abituale collaboratore ed è un fattore in più, grazie alle riprese in luce naturale (siamo sempre in Danimarca, patria del “Dogma” cinematografico di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, nemico dell’illuminazione artificiale).



In contemporanea con “La terra promessa” (coprodotto da Germania, Danimarca e Svezia, è distribuito da Movies Inspired) è andata in sala un’altra storia di colonizzazione, il forte e perturbante “Los colonos”, esordio nel lungometraggio del cileno Felipe Gálvez Haberle, durissima rievocazione del genocidio dei nativi Salk’nam in Patagonia tra seconda metà dell’Ottocento e primi del Novecento. Protagonisti José Menéndez (Alfredo Castro), potente allevatore, che scatena gli istinti criminali dell’ex militare scozzese Alexander MacLennan (Mark Stanley) e del cowboy americano Bill (Benjamin Westfall), per ripulire etnicamente le sue nuove terre a sud. Con loro il giovane meticcio Segundo (Camilo Arancibia), arruolato perché ha una buona mira. Nulla di romanzesco stavolta, solo l’ennesimo brandello di Storia che viaggia da sempre su strade con le croci al posto delle pietre miliari.

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