di
ANDREA ALOI
Com’è contenta Hedwig, si gode una pattuglia di figli biondi, una casa spaziosa e, che comodità!, giusto al di là del muro di cinta l’amato marito Rudolf Höss ha un incarico prestigioso, è il Kommandant di Auschwitz-Birkenau. Stimatissimo dal Führer, Rudolf ha così velocizzato coi forni a ciclo continuo lo smaltimento della razza inferiore - siamo nella primavera del ’42 - che si merita la promozione a coordinatore di tutte le fabbriche di morte sparse per l’Europa. Hedwig punta i piedi però, non vuole abbandonare il suo bel posticino lì a Oświęcim, in Polonia. Lei a quel continuo profondo brontolìo come di caldaia, agli spari, alle urla delle SS è abituata e quando la siepe crescerà non si vedrà neanche più il muro.
Tra i film più recenti dedicati all’Olocausto, “La zona di interesse” dell’inglese Jonathan Glazer occupa un posto speciale con una sconvolgente storia vera di banalità del Male suggerito e mai direttamente mostrato. Il film, guidato da un regista amante della sperimentazione e al contempo narrativamente solido, va a segno grazie a uno spunto forte, il romanzo omonimo di Martin Amis, anche co-sceneggiatore, e soprattutto a una inedita fusione straordinariamente conturbante di immagini e suoni, frutto del lavoro della trentasettenne Mica Levi, polistrumentista di grande esperienza nel noise pop, tra rumorismo e ipnotiche interferenze, e del sound designer Johnnie Burn. Evocano tracce sonore d’epoca, le fondono in un flusso da cui trasudano brandelli di voci umane, un mugghiare di dolorosa, terminale tempesta.
È ciò che ascoltiamo all'inizio del film, a schermo completamente nero. Glazer ha girato nei precisi luoghi del tormento con diverse macchine fisse e ha piazzato videocamere tra casa Höss e giardino, tipo Grande Fratello. Escludendo i primi piani punta a una distanza con resa oggettiva dell’immagine, lascia parlare la situazione e serve a freddo anche i minimi slittamenti emotivi che quella contiguità assurda comporta. Non tanto in Hedwig (una monumentale Sandra Hüller), tutta presa a guidare le serve-prigioniere di casa con toni perentori, a provarsi la pelliccia di una deportata e a chiacchierare con le amiche (“ho trovato un diamante nel dentifricio, furbi questi ebrei”), quanto sui figli. Il piccolo Hans si trastulla coi denti delle vittime, suo fratello Claus, più grande, gioca a segregare Hans nella serra, una loro sorellina suona al piano le note trascritte su un malandato pezzo di carta da un internato. Anche lui passato tra i più. La canzone si chiama “Sunbeams”, raggi di sole. Non si fa fatica a pensare che ai piccoli Höss si stia iniziando a squagliare il cervello. La madre di Hedwig, in visita alla figlia, se ne torna a casa nottetempo, non regge.
Rudolf (Christian Friedel, somigliante al mefitico originale, reso con la dovuta opacità) è un padre amorevole, porta i figli al fiume e sta ben attento a farli uscire dall’acqua quando vengono scaricati i “residui di lavorazione”, ceneri miste a Ziklon-B. Alla sera gli racconta favole educative, come “Hänsel e Gretel”: la strega cattiva muore bruciata nel forno, giusta punizione per lei e i nemici del Terzo Reich. Hedwig è una maniaca della pulizia domestica, suo marito della pulizia etnica. “La vita di cui godiamo merita davvero il sacrificio”, dice Rudolf ai familiari riuniti per cena. Si riferisce al possibile disagio di quei bagliori notturni, di quelle urla soffocate? Ma no, al suo trasferimento. Il Kommandant che ordinava alle SS del campo di non strappare i fiori di lillà e amava con trasporto il suo cavallo finirà impiccato nel ’47. Il film non arriva al dopoguerra, ma è una circostanza che ricordiamo molto volentieri.
Tra i colpi di regia più riusciti di un film premiato a Cannes e candidato con pieno merito a cinque Oscar, ci sono alcune sbalorditive scene notturne girate con camera termica virata sul nero, riprendono una giovane servente polacca degli Höss che lascia sui tragitti percorsi dai prigionieri disperati un po’ di cibo, della frutta.“La zona di interesse” - veniva chiamata così la fascia di quaranta chilometri quadrati adiacente al perimetro dei campi - è una coproduzione tra Gran Bretagna, Polonia e Stati Uniti (A24, Access Entertainment, Film4), distribuisce I Wonder Pictures in oltre 300 sale. E il pubblico sta rispondendo, sono 105 minuti che non lasciano tregua.
Hedwig e Rudolf non danno segni di malessere, anzi, riescono a rimuovere, nonostante le “moleste” ricadute di ceneri, una strage immane. Per contro nel romanzo di Amis - lo scrittore è morto lo scorso maggio - i personaggi principali hanno nomi di fantasia e sentono la pressione della macchina di sterminio: “…abbiamo sentito qualcosa, qualcosa nel vento… Era un inerme, tremante accordo di umano terrore e sgomento”. La vicenda non è trattata con la “freddezza” del film, è virata sul grottesco-satirico con un certo riguardo per la burocrazia nazista. Dall’ufficiale Golo Thomsen con gli “occhi artici blu cobalto” che spasima per la seducente Hannah, moglie dell’avvinazzato Kommandant Paul al capitano Boris Eltz, tutti parlano in prima persona, prendendosi ciascuno un capitolo. Fumare “trovo che aiuti un po’ con l’odore” dice Hannah. Un sigillo di disumanità fra sparsi accenni di nausea: “Se quello che stiamo facendo è una cosa buona, perché ha un odore così pervicacemente cattivo? Sulla rampa, la sera, perché avvertiamo quell’incontrovertibile bisogno di ubriacarci brutalmente?”. Per restare in ambito letterario, un percorso “algido” nella follia del Reich e nel suo determinismo genocida lo offre “Le Benevole” di Jonathan Littel, fluviale autobiografia romanzesca di un’anima nera delle SS, Maximilian Aue, testimone delle trucida demenzialità del Terzo Reich. Il tono anodino del suo rendiconto è, paradossalmente, ancora più inquietante. Le Benevole del titolo richiamano le Eumenidi, furiose Erinni vendicatrici placate da Apollo nell’Orestea di Eschilo. Cessi la furia, non la memoria però.
Si diceva dei film a tema Olocausto. Assegnato a “La zona di interesse” il (personale) podio più alto, gli tiene testa il potente “Il figlio di Saul” (2015) dell’ungherese László Nemes (gran premio della giuria a Cannes e Oscar come miglior film straniero), una storia quasi classicamente tragica che si genera nell’universo concentrazionario di Auschwitz, protagonista l’ambiguo ebreo tedesco Saul Ausländer, uno del Sonderkommando, l’unità speciale formata da giovani ebrei con funzioni di assistenza alle SS. Ciò che spesso, comunque, non valeva a salvar loro la vita. Subito a coda “Train de vie. Un treno per vivere” (1998) del rumeno naturalizzato francese Radu Mihăileanu, un tenero, ironico svolo onirico con accenti da commedia per serbare un seme di speranza e salvare, almeno con la fantasia, gli abitanti di uno shtetl dell’Europa dell’Est dai macabri cacciatori di ebrei.
Toni apertamente satirici ha il riuscito “Jojo Rabbit” (2019) di Taika Waititi, in scena un bambino tedesco attratto dalla presenza immaginaria di un Hitler pagliaccesco, una ragazza ebrea in fuga dalla Gestapo e un salvataggio in extremis grazie a un capitano nazi che ha aperto gli occhi. Mentre qualche affinità col film di Glazer ce l’ha “II bambino con il pigiama a righe” (2008) di Mark Herman, hanno in comune l'estrema prossimità di spazio della vita e spazio della morte, ma qui un contatto fisico vero c’è: tra il piccolo Bruno, otto anni, figlio del comandante del lager, e il coetaneo Shmuel, “abitante” dall’altra parte del filo spinato. Diventati amici, condivideranno una sorte terribile. Sorvolando sullo stranoto “Schindler's list” (1993) di Spielberg, assai riuscito è “One Life” di James Hawes, uscito lo scorso ottobre, una sorta di emozionante prequel dell’Olocausto. Anthony Hopkins veste i panni di Nicholas Winton, un coraggioso attivista che era riuscito a organizzare, poco prima dell’ingresso dei tedeschi a Praga, la fuga in treno verso l’Inghilterra di 669 bambini ebrei. Commovente. Superbo, va da sé, Hopkins.
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