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FINALMENTE
L'ALBA
DIETRO L'OMBRA
DI MONTESI

di ANDREA ALOI

Se “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi restituisce del maschilismo l’assetto brutalmente patriarcale, “Finalmente l’alba” di Saverio Costanzo - stessa ambientazione romana, dal ’46 del referendum monarchia-repubblica siamo passati al ’53 della legge truffa - ne mette in piena luce l’aspetto immediatamente prevaricante-predatorio. Homo homini lupus, ma con le donne ancora di più. La protagonista Mimosa (la talentuosa Rebecca Antonaci, così perfetta nel ruolo da salvare un film piuttosto discontinuo) i lupi riuscirà a tenerli a bada dopo un viaggio al termine di una notte perigliosa, tra le pieghe meno lodevoli della Hollywood sul Tevere. Un’avventura, partita da comparsa per caso in un sandalone d’ambientazione egizia e proseguita con approcci disgustosi, che poteva costarle cara.



Il ’53 è l'anno della misteriosa morte di Wilma Montesi, ventunenne romana di bell’aspetto e aspirazioni d’attrice trovata esanime una mattina d’aprile sulla spiaggia di Torvaianica e lì attinge, con la spiccata sensibilità al mondo femminile mostrata nella regia di due stagioni dell’“L’amica geniale”, Saverio Costanzo, qui anche autore della sceneggiatura, fin troppo carica di multipli riverberi felliniani, in primo luogo “La Dolce Vita”. Il clamoroso caso Montesi aveva coinvolto due papaveri della Roma-bene più cinica, Piero Piccioni, pianista jazz, fidanzato di Alida Valli e figlio del potente democristiano Attilio, allora ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, e il marchese Ugo Montagna, proprietario, meglio sarebbe dire tenutario, della fastosa residenza di Capocotta, chiacchierato teatro di dopocena “eleganti” (e ci siamo capiti).



I due, bersaglio della stampa scandalistica e d’inchiesta in una bufera non solo politica ma diventata caso nazionale - forse il primo così mediaticamente pervasivo, perfetto nella dicotomia d’appendice “povera ragazza del popolo illusa-poteri più o meno occulti intoccabili” - sono sbandierati come responsabili della morte di Wilma Montesi, avvenuta, secondo la tesi più gettonata, per overdose da stupefacenti nel corso di un’orgia a casa del marchese. Storiaccia non sboccata in alcuna condanna, caso irrisolto, polemiche infinite a mezzo stampa tra innocentisti (Corriere della Sera) e colpevolisti (Paese Sera). “Finalmente l’alba” non cita soltanto il caso di settant’anni fa, lo evoca direttamente con quella croce piantata nella sabbia a ricordo di Wilma e che Mimosa vedrà da vicino al sorgere del sole, appena sfuggita dalla seduttiva, letale ragnatela in cui si era impaniata, nella villa davanti al mare di Ugo Compagna, testualmente citata nel film.



Roma nel ’53 è già diventata una megafabbrica di film, Cinecittà una mecca, anni dopo ci gireranno un kolossal come “Ben Hur”. Mimosa accompagna negli studi sulla Tuscolana la sorella maggiore Iris (Sofia Panizzi), belloccia e speranzosa di venir scritturata come comparsa in un peplum tra le piramidi, protagonista la perfida faraona Merneith interpretata da Josephine Esperanto (Lily James). Ce la fa e pure Mimosa viene chiamata per un provino, ma si vergogna a mostrarsi discinta e viene scartata. Mentre è in cerca della madre Elvira (Carmen Pommella) per i labirinti di Cinecittà viene notata da Josephine, già pronta ad andare in scena, che la pretende come ancella. Via al trucco e parrucco e in scena, un set mastodontico, a fianco di una star prima ammirata sui rotocalchi. È l’ultimo ciak, l’eroe, il biondo Sean Lockwood (Joe Keery), sconfigge a duello il torvo e muscoloso campione di Merneith e alza i tacchi, lasciando disillusa la faraona, subito vendicativa coi suoi compagni d’arme, legati in cima a un palo e dati in pasto a voraci avvoltoi. Un ricco polpettone di genere, d’altra parte le produzioni ai tempi avevano soldi in cassa e le sale erano sempre piene. Caso vuole che Mimosa abbia ammirato Sean il giorno prima in un film - presumibilmente neorealista - nei panni di un soldato americano liberatore. Vive, insomma, un conturbante sogno a occhi spalancati: la finzione va a passeggio con la realtà. Archetipo drammaturgico di Ingenua, ha appena vent’anni e pronuncia una battuta che ripeterà per una buona metà delle due ore di “Finalmente l’alba”: devo tornare dalla mamma. Macché.



Josephine Esperanto (un nome da cinema dei telefoni bianchi o da rivista Grand Hotel) la obbliga, quasi fosse un bambolotto senza volontà, a seguirla al ristorante insieme a Sean e al gallerista Rufo Priori (Willem Dafoe, non doppiato, con l’italiano se la cava benissimo), promettente personaggio di uomo dignitoso capitato in una disperata fiera delle vanità, e però poco sviluppato dal regista. La piccola brigata si unisce successivamente a una festa nella tenuta di Capocotta, popolata da un bestiario tra l’estenuato (fa capolino una brutta copia di Giò Staiano, cruciale protagonista della Dolce Vita “vera”, per la cronaca primo trans italiano) e il vampiresco, ci sono il pittore spiantato che offre la fidanzata a uno stupratore d’occasione, il vecchiotto palpeggiatore e su tutti svetta Ugo Compagna, il padrone di casa, ricco ma non poi tanto, un tessitore di relazioni umane e disumane reso da Giovanni Moschella come un guitto viscido e ripugnante. Un mazzo di carte false che, a parte Alida Valli (Alba Rohrwacher, un po’ paracadutata nel film), verrebbe la voglia di obbligare a scaricare cassette di frutta ai mercati generali per almeno un semestre. Un mélange di attori americani e vippetti da mondanità internazionale giostrati da Costanzo “alla Guadagnino” senza possederne lo stile e la capacità coreografica. Poi “Finalmente l’alba” svolta e cresce.



Mimosa subisce approcci pesanti, la salva Sean, faranno l’amore. L’Ingenua, presentata come una poetessa svedese dalla insopportabile Josephine, sempre impegnata ad atteggiarsi anche quando beve un sorso di champagne, verrà da lei perfidamente invitata a recitare qualche verso. Un imbarazzo supremo, ma ne uscirà trionfante in una scena clou (non spoilerabile), ben costruita per esaltare l’espressività di Rebecca Antonaci (che brava!). Mimosa, come in un fulmineo romanzo di formazione, è diventata più grande, si sveglia all’alba da sola, quando i lupi sono rientrati nelle tane e, dopo aver sfiorato la croce-ricordo di Wilma Montesi sulla spiaggia, fa ritorno a casa grazie al passaggio di un traslochista che ha appena portato via dalla magione del marchese intrallazzatore un pianoforte a coda, evidentemente mai pagato. Un semplice lavoratore, evviva la realtà. In una piazza di Spagna deserta, ormai donna consapevole che ha pesato l’evanescenza della diva-strega cattiva e la debolezza/vaghezza interiore del divetto, Mimosa si fa amica una leonessa fuggita da Cinecittà, ogni debolezza è domata E si chiude sul suo sorriso, accarezzato dai versi che Cesare Pavese aveva dedicato nel ’50, poco prima del suicidio, all’attrice Constance Dowling, ultimo suo amore: “Il tumulto delle strade/ Sarà il tumulto del cuore/ Nella luce smarrita./ Sarai tu – ferma e chiara”. Un colpo d’impatto. Emozionante.



“È un film sul mondo dello spettacolo. Quindi sulle ambizioni, sulla vanità. Ma anche sul riscatto dei semplici, degli ingenui, di chi è ancora capace di guardare al mondo con stupore” ha spiegato il regista. Non c’erano dubbi al riguardo. E Fellini ha dato una bella mano all’impresa, ben oltre il contesto del vagare tormentato di Marcello nella Capitale del cinema e di un bel mondo un po’ vuotino. Il sorriso finale di Mimosa, quel volto pulito e sereno, conduce, di simbolo in simbolo, all’ultima scena de “La dolce vita” sulla spiaggia di Fregene, dove sono appena comparse le spoglie di un animale marino (la povera Wilma?). Marcello vede in lontananza la bionda Paolina (Valeria Ciangottini, allora quindicenne), una fanciulla lieta che lo interpella, ma lui non sente, non capisce, non ha - al momento - orecchi per l’innocenza. Mimosa arriva al termine della peripezia e ci lascia con il sorriso della vittoria sulle sue debolezze. Come Cabiria/Giulietta Masina, mirabile Ingenua al termine delle sue notti, ci chiede, lo sguardo in camera, di risvegliare i nostri sensi d’umanità, di avere compassione, come lei, anche di noi stessi. E il doppio registro finzione/realtà e genuinità popolare/vanità del milieu divistico riconduce ancora al Fellini de “Lo sceicco bianco” del ’52, dove l’Ingenua è Wanda (Brunella Bovo). Giunta a Roma per sposarsi, fa di tutto per incontrare il protagonista del suo fotoromanzo preferito, ci riesce, vacilla, ma tutto rientrerà nell’alveo domestico. Lo sceicco si chiama Fernando (lo interpreta Alberto Sordi) ed è un poveraccio messo in riga dalla moglie, un Rodolfo Valentino de noantri campione di cialtroneria. Più che un lupo, un gatto mammone.



Pare che la sventurata vicenda di Wilma Montesi abbia innescato più di cinquanta sceneggiature, senza che si arrivasse a una rivisitazione cinematografica puntuale, a parte rimandi qua e là, “La Dolce Vita” e poi un episodio dei “Mostri” di Dino Risi (il miserabile soldato Battacchi/Tognazzi tratta con un giornale la vendita del diario della sorella uccisa a Roma dopo essere entrata in un pessimo giro) e ancora Risi senior con la scomparsa Wilma Cerulli in “Il commissario Lo Gatto”. Dettaglio: uscito indenne dallo scandalo Montesi, Piero Piccioni diventerà autore di splendide colonne sonore, alcune delle più note per film con Alberto Sordi, da “Amore mio aiutami” al “Medico della mutua”.

“Finalmente l’alba”, girato a Cinecittà e sull’Appia Antica, è una produzione Wildside e Rai Cinema ad alto budget, siamo oltre i 28 milioni di euro, oltre 500 le copie distribuite. Auguri, ne ha bisogno. Da segnalare il montaggio fluido di Francesca Calvelli, una top nel settore e un consiglio a Paola Gattabrusi, responsabile del trucco: non esageriamo col nero per evidenziare le occhiaie, Mimosa nella seconda parte del film sembra Johnny Depp in ”Edward mani di forbice”.

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