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PERFECT DAYS
ANTIEROE ZEN
NEI BAGNI PUBBLICI
DI TOKYO

di ANDREA ALOI

Con il mite, dolce Hirayama di “Perfect days” Wim Wenders ha magnificamente indovinato, scritto (con Takuma Takasaki) e diretto un suo perfetto anti-eroe degno dell’Oscar, un uomo, solo per scelta, immerso in una megalopoli, sospeso tra compassione buddista e beatitudine francescana, tra canzoni di Lou Reed e Van Morrison - che ascolta su vetuste musicassette - e letture di Faulkner sospese nella quiete serale. Così semplice, arcaico, necessario, quintessenzalmente giapponese, dal rispetto per il prossimo alla devota contemplazione della natura, ma insieme universale, un epigono dell’operaio Tino Faussone della “Chiave a stella” di Primo Levi per la dedizione al “lavoro fatto per bene”, colmo di suggestioni etico-filosofiche convergenti tra quegli universi che chiamiamo Oriente e Occidente, lo zen e lo stoicismo. Hirayama (modellato con gran perizia da Kōji Yakusho, premiato a Cannes come migliore attore protagonista) ha superato da un po’ i sessanta, vive in una piccola casa su due piani dalle parti della Torre di Tokio, se la sfanga facendo le pulizie nelle toilette pubbliche del quartiere Shibuya ed è felice. O almeno ha trovato un suo pacificato equilibrio, cullandosi nella routine più ferrea, ma cogliendo nel cielo e nel mondo, salutato ogni giorno con occhi lieti, un dono immenso che si rinnova.



“Perfect days” di Wim Wenders, girato con sereno sguardo partecipe e fede mai rinnegata nel potere delle immagini, è un reverente omaggio all’immenso Ozu, alla sua poetica del minimo che s’imprime nello spettatore, sia un gesto, un sorriso, Ozu già celebrato nel documentario “Tokyo-Ga” dell’85. Da tempo il regista settantottenne, con mezzo secolo di cinema nello zaino, non si avvicinava a un lungometraggio di fiction e soprattutto con una ispirata purezza di tratto degna di “Alice nelle città”,”Nel corso del tempo”, “Falso movimento” e dei successivi “Paris, Texas” e “Il cielo sopra Berlino” dell’87, di recente tornato in sala restaurato in 4k, mentre aveva lasciato ottimo segno coi doc “Pina” (2011) sulla coreografa Pina Bausch e “Il sale della terra” (2014) dedicato all’opera fotografica “militante” di Sebastião Salgado, un artista che tiene accesa la coscienza dell’umanità.



A Hirayama, per sentirsi in sintonia col pulsare del mondo, basta spuntare i baffetti la mattina, indossare la divisa con su scritto “The Tokyo Toilet” e prendere un caffè alla macchinetta sotto casa. In auto c’è il momento “sacro” della musicassetta archeologica e partono i Velvet Underground di “Pale blue eyes” (“sometimes I feel so happy, sometimes I feel so sad”), gli Animals di “The House of the Rising Sun”, “Redondo beach” di Patti Smith con una storia di abbandono improvviso che prima incuriosisce poi arriva a commuovere Aya (Aoi Yamada) ragazza bionda punkeggiante cui ha dato un passaggio. Di Aya è innamorato Takashi (Tokio Emoto) sconnesso, simpatico collega da Hirayama rimproverato per i modi sbrigativi sul lavoro. Le toilette pubbliche di Shibuya sono spesso opere di design e lui le cura, deterge, lucida con perizia.



Aya e Takashi sono due delle tante “poesie visive” del film, quasi piccoli haiku giapponesi, brevi componimenti non in versi ma per immagini, sbozzati nel brulichìo di una città con 14 milioni di vite, ciascuna in relazione con le altre e non può essere altrimenti, secondo gli insegnamenti del venerabile filosofo hassidim Martin Buber (tanto per ricordare un altro fronte dell’umanesimo mistico universale). Fili che uniscono per caso, per abitudine o per gioco: un foglio trovato in un bagno con il gioco del tris iniziato è un invito a proseguire e Hirayama non perde l’occasione, mette la sua crocetta e torna il giorno dopo: il misterioso giocatore ha segnato un nuovo cerchio. Non siamo a Berlino, ma qualche angelo qua e là spunta, ci osserva. C’è il gestore di uno street food che ogni sera accoglie con calore Hirayama, il saluto di un senzatetto che vive in tenda sotto un albero, l’incontro con una malmostosa impiegata nel parco dove il nostro contemplatore mangia un panino durante la pausa prima di sfoderare, come sempre, una vecchia Olympus con rullino.



Obiettivo puntato, tutti i giorni, sugli alberi, più precisamente sulla luce che filtra tra le foglie: in giapponese c’è un termine apposito per definirla, komorebi. Alti fusti, foglie che giocano col sole. Nel fine settimana Hirayama porta a sviluppare le foto e ritira le stampe, a casa le osserva, alcune finiscono in una scatola, altre strappate. E il giorno del riposo ha un altro rito, la visita al ristorantino gestito da Mama (Sayuri Ishikawa), prodiga di gentilezze verso il silenzioso cliente, si capisce che è interessata. La visita della nipote adolescente Niko (Arisa Nakano) scappata da casa, crea un’interferenza nel suo abituale flusso quotidiano. Lei lo accompagna al lavoro, parlano, s’intendono perché pure Hirayama è figlio di un disagio. Quando sua sorella Keiko (Yumi Asō) arriva per riprendersi la ragazza su un macchinone con autista, si scopre che l’addetto alle toilette è andato via di casa tanti anni prima per un dissidio col padre, che l’aveva designato come erede e prosecutore delle attività di famiglia, si immagina molto redditizie. Nato bene e lo si sospettava, ma desideroso d’altro: ho la mia musica, i miei libri, dimenticatemi. Ma salutando con un abbraccio la sorella piange.



Non spreca parole questo lupo solitario molto zen, dice però qualcosa di significativo attraverso le canzoni preferite, tipo la sessantottina “(Sittin’ on) the dock of the bay” di Otis Redding: “I can’t do what ten people tell me to do, So I guess I’ll remain the same, yes”. Il destino lo distoglierà dalla più quieta (o quasi) delle lontananze? Dopo l’incontro con Keiko, Hirayama compra birra e sigarette, il tempo è scivolato via, la cicatrice è rimasta. E, siamo al sottofinale, incontra Tomoyama (Tomozaku Miura), ex marito di Mama condannato da un tumore, che aveva prima intravisto al ristorantino. Lì, di notte, su una banchina del fiume, sotto un ponte, i due, perfetti sconosciuti giocano a pestarsi reciprocamente le ombre dopo essersi chiesti: “Due ombre che si sovrappongono sono più scure”? Sul limite della vita rimangono la gioia delle parole e il calore di sentirsi, insieme, umani. Mai negarsi letizia, fossero pure momenti aspri: si chiama accettazione, un cardine buddista e non solo. Hirayama farà finalmente un passo verso Mama?



Anche Wenders parla, nel finale, con la musica, “Feeling good” di Nina Simone: “It’s a new dawn / it’s a new day / it’s new life / for me” / And I'm feeling good”. Mentre in un primissimo piano glorioso, Hirayama alla guida alterna più volte accenni di sorriso e incombenti lacrime e sian rese grazie all’arte di Kōji Yakusho. Wenders rimane per l’ennesima volta fedele a un mood musicale irripetibile che, cinquanta e più anni fa, non era solo arredo sonoro ma parte piena di un’epoca in cui si sognava molto e bene. Come Hirayama, che dormendo s’immerge in piccoli film in bianco e nero, sono balugini liquide, alberi, foglie tremule, geometrie costruttiviste. Sentieri profondi e leggeri nel transito di un’anima. Gioielli di cinema.

“Perfect days” - 123 minuti benedetti dalla fotografia di Franz Lustig - è prodotto da Master Mind, distribuisce Lucky Red.

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