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IL CAFTANO BLU
RIVOLUZIONE
ISLAMICA
CON TRIANGOLO

di ANDREA ALOI

Halim è sarto, Mina, sua moglie, cura la clientela del piccolo negozio, Youssef, giovane volenteroso apprendista, entra nelle loro vite a portare non discordia, ma pace dell’anima. “Il caftano blu” della quarantreenne marocchina Maryam Touzani racconta un “triangolo” d’affetti nella odierna medina di Salé, una storia (anche) di omosessualità, ancora decisamente tabù in un Paese arabo e musulmano, quasi una piccola rivoluzione che fa parlare sguardi e silenzi, la voce più autentica del cuore. Il film, coprodotto da Marocco, Francia, Belgio e Danimarca, incisivo nella sua delicatezza estrema, è passato a Cannes nel 2022 e ha trovato finalmente distribuzione in Italia grazie alla torinese Movies Inspired. Una vera nota lieta viene dal Centre cinématographique marocain, che lo ha “benedetto”, segno di una vitalità peraltro ben testimoniata dall'annuale Festival Internazionale del Film di Marrakech, dove il film è stato presentato. Siamo pur sempre in Maghreb e nel regno di Muhammad VI, quindi è un’uscita da salutare con piacere.



Halim (Saleh Bakri) è un uomo vicino alla mezza età e un buon marito. Fatica a lasciar correre i sentimenti, sua madre è morta mentre lo metteva al mondo, il padre lo ha sempre odiato. Omosessuale senza tentennamenti - “ho provato a reprimere, ho provato per tutta la vita!”, confesserà alla moglie, che già se lo immaginava - trova quello che cerca nell’hammam senza sottrarsi ai doveri coniugali. Mina (Lubna Azabal) è devota, prega Allah, ma, insofferente del patriarcato largamente vigente, va al bar col marito, unica donna, e non sopporta il poliziotto borghese che, manco fosse un basiji iraniano, le chiede i documenti, certificato di matrimonio compreso, mentre torna a casa di sera con Halim. È nervosa, mal sopporta le clienti che si lamentano per la lentezza nella consegna degli abiti ordinati, d’altra parte Halim non cuce a macchina, con ago e filo crea opere d’arte e per averle serve pazienza. Vive una tenera routine con la moglie, le porta gli amati mandarini: si vogliono bene e il legame si è ancor più stretto dopo la malattia di Mina. Operata al seno, fa di nuovo i conti col tumore che ormai è una sentenza, le forze poco alla volta l’abbandonano. Halim la sostiene, si godono insieme, alla finestra, il fresco della sera: “Lo senti il profumo del mare?’”.



L’arrivo di Youssef (Ayiub Missoui) scardina un equilibrio, gli occhi si accendono nell’ombra. Più incede il male della moglie, più il ragazzo si avvicina ad Halim, fino a confessargli i suoi sentimenti. Mina “sente”, capisce, soffre una piccola gelosia poi, sempre più debole, lascia campo dentro di sé all’amore “scandaloso” del marito e di Youssef, quasi lo benedice: “Halim, sei l’uomo più puro che conosco, sono felice di aver condiviso la vita con te. Non aver paura di amare”.



“Il caftano blu” è potentemente intimista e sensuale pur senza sfoggio di epidermide, cresce minuto dopo minuto, i personaggi “maturano” in una sobrietà registica estrema che lascia parlare l’attorialità e le atmosfere. Unico neo un pizzico di prolissità, la misura aurea dei 90-100 minuti era sufficiente, ma il passo lungo del film forse intendeva richiamare le centinaia di ore necessarie per i ricami d’oro a mano del caftano blu destinato a una cliente che - attenzione - non lo indosserà mai. Come a dire: c’è un cinema di massa frenetico e un cinema su misura. Promana dal film un forte senso del sacro, un’accettazione della “volontà di Dio” estranea alla nostra cultura che deve in ogni istante esorcizzare l’ultimo viaggio. E Mina la devota ci affida un pensiero: l’essere egoisti o sensibili, crudeli o dolcissimi, omosessuali o etero non c’entra con l’essere o meno musulmani, bensì con l’essere semplicemente umani. E una sessualità più aperta non è in contraddizione con l’Islam.



Senza nulla togliere al profondo Halim di Saleh Bakri (palestinese con cittadinanza israeliana e noto attivista) e al ben tratteggiato, tenero Youssef di Ayiub Missoui, la Mina di Lubna Azabal - la superpremiata attrice cinquantenne nata in Belgio da padre marocchino di origine berbera e da madre spagnola, ha lavorato anche con André Téchiné - giganteggia, offre al nostro sguardo una nudità segnata dal bisturi e accompagna la mano di Halim sulla ferita: siamo fragili viventi sospesi e passeggeri, non perdiamo tempo con l’odio e la paura. L’avevamo vista in “Paradise now” (2005) interessante lavoro del regista palestinese Hany Abu-Assad imperniato su due palestinesi di Nablus, Khaled e Said, attentatori suicidi rosi dai dubbi dove ben interpretava Suha, donna intrepida capace di far desistere uno di loro. Tematiche impellenti e sofferte, un mondo in cui affonda le mani anche la tangerina Maryam Touzani, regista engagée, dai primi cortometraggi sulla condizione della donna in Marocco al film “Adam” sulle ragazze madri e il posto dei loro figli nella società, presentato a Cannes nel 2019 e selezionato come candidato marocchino all’Oscar nella categoria miglior film internazionale. Per “Il caftano blu” ha lavorato in sceneggiatura col marito Nabil Ayouch, regista del recente “Casablanca beat”: rap e ribellione adolescenziale nel quartiere popolare di Sidi Moumen della città costiera.

 

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