“Questa filatura sorta nel 1878 dietro l’iniziativa ardita del Signor Cav. Cristoforo Benigno Crespi è destinata a diventare uno dei più importanti stabilimenti del genere. La famiglia Crespi appartiene alla storia dell’industria cotoniera italiana inquantoché tre generazioni di essa se ne sono occupati sempre più attivamente a datare dall’avo del Cav. Crespi che fu dei primi a tessere cotone nella industre borgata di Busto Arsizio e venendo fino ai diversi attuali componenti della famiglia che sono alla testa oggi dei ragguardevoli opifici di Canonica [Crespi d’Adda], Ghemme, Vigevano e Nembro. La filatura che occupa un’area di 7.650 metri quadrati è del tipo a capannoni ed è costruita soltanto per metà. Dovrà essere raddoppiata, essendo già predisposto per tali ampliamenti tanto il locale delle turbine, che quello delle corde e la facciata. L’impianto completo conterrà 50.000 fusi e costituirà come già costituisce ora nella parte costruita un vero modello d’opificio, beninteso avuto riguardo alle condizioni variabili di materia prima e di prodotti cui pur troppo devono soggiacere le nostre filature”.
Così raccontava Crespi d’Adda l’ingegner Cesare Saldini, rettore del Politecnico di Milano, che lo visitò nel 1883. Toni celebrativi ed entusiastici che non si discostano molto da quelli del villaggio di Crespi d’Adda nell’annunciare le celebrazioni per i trent’anni dall’ingresso nella lista del patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO. Nel comunicato ufficiale si legge: “Un riconoscimento internazionale che ne consacrava il valore storico, architettonico e sociale. ‘Un esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, che vide la luce in Europa e nell’America del Nord tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, espressione della filosofia predominante tra gli industriali illuminati nei riguardi dei loro operai’. È con questa motivazione che il Comitato per il Patrimonio Mondiale UNESCO accolse, nel 1995, il villaggio operaio bergamasco nella World Heritage List, undicesimo sito in Italia, terzo in Lombardia, quinto al mondo per l’archeologia industriale”.
Se da una parte occorre davvero celebrare l’epica iniziativa di un gruppo di studenti universitari di Capriate San Gervasio che riuscirono a difendere l’insediamento da più che possibili speculazioni facendolo diventare sito UNESCO, dall’altra è utile cogliere l’occasione per restituire al Villaggio Crespi la sua dimensione originaria.
Nel corso dell’800, con il progredire della rivoluzione industriale, si poneva per gli industriali il problema della formazione di maestranze disciplinate e l’esigenza di stabilire un controllo assoluto sulla forza lavoro e in particolare sull’intero nucleo familiare dell’operaio. Stabilimenti sempre più grandi ed efficienti necessitavano di una nuova generazione operaia, molto diversa da quelle precedenti abituate a lavorare senza un salario stabile, senza un orario fisso e in modo poco disciplinato, ribellandosi agli orari, alla monotonia del lavoro, ai malanni che provocava. Nasceva così quello che poi avremmo chiamato paternalismo industriale, ovvero il controllo totale dell’imprenditore sulla vita dei suoi dipendenti.
Come ha spiegato l’urbanista e storico dell’architettura Giancarlo Consonni in un documentario RAI sul paternalismo industriale del 1981: “L’intervento dell’industriale è un intervento sull’intero arco della vita sociale dell’operaio. Cerca di ricreare una continuità attraverso una sorta di alleanza con la famiglia e in modo da garantire un continuo flusso di forza lavoro: la riproduzione della forza lavoro da impiegare nel ciclo produttivo. Ecco questo è un punto fondamentale, cioè l’investimento su lunga distanza che il paternalismo svolge. L’unico orizzonte di salvezza per una società contadina in crisi, i cui redditi erano in continua diminuzione, era la fabbrica e la fabbrica richiede sempre più forza lavoro fresca, soprattutto del settore serico e cotoniero, forza lavoro da spremere nei primi anni dell'adolescenza e della giovinezza. E la famiglia è in qualche modo indirizzata a produrre questa forza lavoro. Produce forza lavoro per un mercato molto ristretto nel tempo in cui chi produce più reddito di fatto non è il capofamiglia che rimane legato al fondo contadino, alla struttura sociale agricola, ma è il bambino, è il fanciullo. Quindi il padre di famiglia, la struttura dominante dall’interno della famiglia, in qualche modo svolge un’attività, una politica demografica che è omogenea a quella del padrone. È un circolo vizioso: più si chiede forza lavoro, più la si produce e più la si deve produrre per sopravvivere. Non a caso uno degli elementi dominanti della cultura contadina è proprio questa connessione tra religione e morte, il culto dei morti come culto di una vita breve, di una vita che si consuma dentro al lavoro e al di fuori della quale non esiste nulla”.
Il fenomeno era globale, non solo italiano. Ovunque si trovasse una fabbrica tessile, si vedevano bambini-operai. Alcuni venivano impiegati per infilare i fili negli aghi da ricamo già dall’età di sei anni perché per farlo servivano tempo e dita sottili. Raggiunta l’età scolastica, un bambino poteva lavorare anche sei ore al giorno: al mattino presto, prima di recarsi a scuola, a mezzogiorno e alla sera fino a tarda notte. Ecco cosa raccontava in un tema, un bambino svizzero di dodici anni, figlio di una famiglia impiegata nell’industria tessile intorno al 1880: “Appena mi alzo al mattino devo scendere in cantina per lavorare sul telaio. Lavoro dalle 5 e 30 alle 7, poi posso gustarmi la colazione. Poi devo di nuovo lavorare fino al momento di andare a scuola. Al termine delle lezioni alle 11 vado velocemente a casa e devo di nuovo lavorare fino a mezzogiorno. Poi posso godermi il pranzo, prima di dover nuovamente lavorare fino alle 12 e 45. Torno poi a scuola per imparare qualcosa di utile. Alle 16, quando finisce la scuola, mi avvio sulla via di casa con i miei compagni. A casa devo di nuovo lavorare sul telaio fino a quando diventa buio e poi posso cenare. Dopo aver mangiato devo di nuovo lavorare fino alle 22. A volte, quando c’è molto lavoro, rimango nella cantina fino alle 23. In seguito auguro la buonanotte ai miei genitori e vado a letto. Succede così ogni giorno”.
Non dobbiamo mai dimenticarlo quando parliamo di paternalismo industriale, altrimenti scambiamo queste politiche per filantropia o per strategie capaci di costruire una nuova società. Certo che gli industriali si impegnavano a costruire gli elementi di una nuova società, ma al tempo stesso la immobilizzavano, garantendosi quei ruoli e quelle funzioni per un periodo lunghissimo. Proprio il cotoniere Crespi, creatore del Villaggio Crespi d’Adda, nel 1897 confessò che i momenti più belli della giornata erano per lui quelli in cui vedeva “i robusti bambini” dei suoi operai scorrazzare per i giardini fioriti correndo incontro ai padri che tornavano dal lavoro. Erano quelli in cui vedeva l’operaio svagarsi “a ornare il campicello e la casa linda e ordinata”, erano quelli in cui in cui “fra l’occhio dell'industriale e quello del dipendente correva un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera”.
Quanto alla meraviglia che ancora suscitano le sue architetture fantasiose, vale la pena riprendere il discorso di Giancarlo Consonni. “Il caso di Crespi d’Adda è interessante perché vi è un uso dell'architettura come messaggio culturale, come sistema informativo per le popolazioni che abitavano nella zona. Attraverso l’architettura si davano dei messaggi di comportamento. Innanzitutto attraverso le case e la gerarchia all'interno delle case: il padrone aveva un castello tenebroso e neo romantico, l’operaio modello aveva una casa con giardino, l’impiegato una casa più ricca di ornamenti architettonici. Una gerarchia che si riproduceva poi nella localizzazione: il castello del padrone vicino alla fabbrica e la rete degli insediamenti abitativi con una gerarchia, con le case delle degli impiegati più isolate, più appartate con maggiore spazio e le altre case tutte in fila in ordine. Poi vi è il complesso degli stili; si tratta di segnare ogni momento della vita con uno stile, dalla nascita dall’asilo, alla scuola, agli ambienti di vita pubblica: dalla chiesa, costruita in stile quattrocentesco, fino al cimitero. E non a caso direi. Tutto l’insediamento si svolge sostanzialmente lungo un asse in cui alla fine noi non troviamo il mondo che continua, ma troviamo il cimitero, con il mausoleo dei Crespi che si contrappone alla nuda presenza della tomba dell’uomo qualunque, dell’operaio qualunque. Una reciproca contrapposizione per dimensioni e per livello architettonico”.
Celebriamo quindi volentieri la bellezza conservata del Villaggio Crespi e la sua rinascita. Festeggiamo il progetto, la visione e l’impegno dell’Associazione Crespi d’Adda, partner dell’Amministrazione Comunale di Capriate San Gervasio, che hanno permesso al villaggio di superare una situazione di decadenza industriale e degrado sociale e raggiungere, come scritto nel comunicato ufficiale, “la ribalta internazionale affermandosi come uno dei più importanti siti di turismo industriale ancora abitati. Oggi, in questo segmento turistico, è secondo solo al museo Ferrari di Maranello, come numero di visitatori ed è considerato un vero e proprio modello di riferimento a livello nazionale e internazionale”. E sfruttiamo l’occasione del 5 dicembre, data esatta della celebrazione per i 30 anni UNESCO, per goderci la proiezione in anteprima nazionale del film “Utopie del lavoro” di Alessandro Melazzini, nell’ambito del festival Produzioni Ininterrotte.
Ma non dimentichiamo mai che anche le oasi apparentemente più felici del paternalismo industriale se hanno rappresentato l’indubbia conquista di un maggior benessere, non possono cancellare le proporzioni dei drammi legati alla vita della fabbrica. Nessuno glorifica le precedenti epoche, quella vita contadina segnata da soprusi, carestie ed epidemie. Nessuno dimentica che la rivoluzione industriale e lo sviluppo che ne è conseguito hanno permesso di debellare flagelli millenari e di migliorare le aspettative di vita. Ma tutti dobbiamo ricordare che il primo impatto dello sviluppo industriale sulla salute fu devastante ed ebbe come manifestazione principale l’accrescimento della mortalità precoce, l’aggravamento della mortalità differenziale tra le classi sociali a svantaggio della classe operaia, la maggiore incidenza di malattie di origine infettiva e carenziali, l’aumento delle intossicazioni in molti mestieri. E soprattutto non dobbiamo scordare che nessuna delle conseguenze più dolorose della prima rivoluzione industriale fu risparmiata ai fanciulli operai; furono infatti migliaia e migliaia di minorenni e giovani donne a pagare il tributo più pesante al progresso economico italiano. Anche in nome loro è bene non usare mai la parola filantropia.