QUELL'AGOSTO 1968
ALLA FIERA DELL'EST
I CARRI ARMATI
DENTRO PRAGA

Indimenticabile agosto del ‘68. Il treno sbuffava e strideva e soffiava lungo le strade ferrate che costeggiavano a Est la Cortina di ferro. Tornavamo da Sofia – i suoi ampi viali, il suo profumo di rose, i suoi negozi allegramente vuoti e polverosi – e la motrice si avventava dentro i boschi rumeni, poi costeggiava le bassure ungheresi e si arrampicava a nord, superava sferragliando la periferia di Belgrado e su ancora, fino a raggiungere Trieste: l’ assolata frontiera tra due mondi.

Eravamo allora imberbi figli dell’Occidente, diciottenni appassionati reduci da una straordinaria kermesse politica: in Bulgaria, il Festival internazionale della gioventù comunista ci aveva accolto e coccolato per due settimane con la sua promessa di una prossima, imminente rivoluzione nel segno della fratellanza mondiale.


(Bulgaria, Sofia. Il IX Festival mondiale della Gioventù e degli Studenti, luglio 1968)


Indimenticabile esperienza: nel mio smilzo zainetto – o era piuttosto una valigia di cartone? – insieme ai baci e agli arrivederci delle compagne di oltre cortina portavo a casa un piccolo grande tesoro. Una manciata sfavillante di medaglie medagliette e medaglioni, distintivi di plastica o metallo, parole d’ordine stampate in lingue sconosciute, ritratti a colori di eroi del socialismo, fermacravatte di latta o in simil-oro a forma di navicella spaziale, bandiere rosse in campo dorato, spille e spillette di ogni foggia e materiale.

E poi personaggi assunti nel cielo della rivoluzione: cosmonauti e partigiani, sportivi invincibili, contadini e operai, compagne preparate, studiosi fanciulli e sorridenti, bambini travestiti da pionieri. E infine bandiere e bandierine, bottoni minuscoli o giganteschi, gagliardetti intraducibili provenienti da misteriosi e mai citati paesi socialisti. E anche francobolli di tutte le fogge e dimensioni, stampti in oro e argento, bordati di rosso comunista. In breve, ma non tanto in breve: un intero universo politico tradotto in allegra o accigliata o eroica parafernalia industriale. “Accumulo di merci”, avrebbe decretato il vecchio Marx.


(Praga, agosto 1968)


Nemmeno il tempo di raccontare in famiglia la grande avventura, nemmeno il tempo di ritrovare l’antica cameretta e di disporre il tesoro sui ripiani della libreria, e arrivò a tradimento l’alba del 21 agosto, quando gli ignari cittadini di Praga si ritrovarono i carri armati sovietici sotto casa. Ma come, ma cosa? Non si parlava a Sofia della primavera di Praga? Laggiù i compagni cecoslovacchi non erano i più richiesti, i più corteggiati, i più amati del Festival? E le spille dorate forgiate a Praga e a Mosca non raccontavano della incrollabile fratellanza tra i giovani danubiani e gli eroici sovietici?

I nostri padri – ah, i nostri padri! – avevano già conosciuto lo sferragliare dei tank sovietici, a Budapest nel ’56. Ma per noi diciottenni era la prima volta, e fu un amaro battesimo. Poi - va da sé - la sinistra si divise tra carristi e libertari, tifosi del pugno duro di Mosca e nostalgici del comunismo dal volto umano. Per quanto mi riguarda – intendo il me diciottenne di quei tempi – fui tiepido sostenitore degli sconfitti. Qualcosa mi diceva – ci diceva – che quel giovane che si diede fuoco in piazza Venceslao era nostro fratello. Fratello di quei ragazzi e di quelle ragazze che a Sofia – sorvegliati a vista dai funzionari del Comsomol - ci raccontavano entusiasti del futuro sfolgorante che si preparava sulle rive della Moldava.


(Ungheria, 1956)


Spille e spillette, medaglioni e fermacravatte, gagliardetti e distintivi furono lasciati a invecchiare sui ripiani della libreria, poi retrocessi negli anni dentro i cassetti dell’armadio. Nello stesso tempo mi attraevano e mi sollecitavano oziosi interrogativi : ma là ad Est ci sono fabbriche intere in cui si produce questa merce? E ci sono operai e operaie che trascorrono la giornata lavorativa a forgiare e limare e confezionare tonnellate di questi prodotti? Perché di tonnellate si trattava, e qui bisognerebbe di nuovo chiedere lumi al vecchio Marx.

Il tempo, si sa, cura tutte le ferite, soprattutto in casa di quelli che non sono stati colpiti. Così con il tempo sbiadì a Occidente anche il ricordo della Primavera sulle rive della Moldova. Dopo l’incidente di Praga, le fabbriche del luminoso futuro avevano ricominciato a produrre a pieno ritmo. Anche Jan Palach dimenticammo, sotto un diluvio di medaglie e medagliette. Ad Est, indifferenti al dibattito sul futuro del confronto geopolitico, opifici e laboratori continuarono a sfornare ideologia e storia addomesticata in formato industriale. Nuovi eroi del socialismo si aggiungevano ai vecchi maestri, e l’elenco dei personaggi e delle situazioni si rivelava più affollato del “Catalogo delle navi achee.”


(Francobolli sovietici, 1968 - foto da eBay)


L’ideologia è sempre anche ipocrisia. Sul francobollo grande come un tovagliolo campeggiava la frase iconica dell’eroe cosmonauta Juri Gararin: “Da qui la terra è bellissima, senza confini né frontiere…”. Negli stessi anni, a cancellare le frontiere tra Paesi fratelli ci pensavano i carri armati sovietici. Praga, e prima di Praga: Budapest. E prima di Budapest: Tblisi e il Caucaso. E prima ancora: Kiev, e prima ancora: i Tatari di Crimea. Era tutto un cancellare e riscrivere frontiere, un affannoso deportare popolazioni inermi.

Ma questo fu prima, molto prima dei nostri ricordi di ragazzi. Invece, nei lunghi anni del declino, rallentò anche la produzione patriottica e si inceppò la linea di montaggio dell’immaginario socialista. Del resto, come celebrare la vergognosa ritirata dell’Armata rossa da Kabul, dopo dieci anni di una guerra che costò alle famiglie russe decine di migliaia di morti, e che sfregiò una intera generazione di giovani sovietici? Nella capitale, ancora peggio: erano gli estremi anni di Leonid Breznev, che i moscoviti battezzarono – ancor vivo – la “salma del Cremlino.”


(Set di spillette celebrative dei cosmonauti sovietici - foto da Etsy)


Quella Mosca dei tardi anni Ottanta - incattivita misera e impaurita - svendeva lungo l’Arbat e nei cunicoli gelati del mercato Izmailovskij gli ultimi manufatti della filiera patriottica: per qualche dollaro – spesso insieme a una confezione di caviale di contrabbando – potevi comprare un mazzo di orologi Polyot o Raketa, di ogni forma e dimensione. Alzi la mano chi tra noi - vecchi ragazzi sognatori del comunismo – non nasconde in qualche cassetto un esemplare di quel marchingegno tardo-sovietico. Sul quadrante, il disegno di un tank o di un sottomarino o di un Mig in picchiata rimandava ad anni di guerra e di gloria ormai tramontati.

Tutto ebbe fine – e che fine! – a Berlino, nel cuore dell’Europa spaccata in due. Ottobre piovoso: sull’ampio viale dell’Unter Den Linden ecco marciare in sincrono perfetto le immacolate, ben stirate, uniformi dei giovani comunisti tedeschi. La camicia azzurra e lo scudetto dorato con la scritta FdJ (libera gioventù tedesca) ben cucito sul petto. Poi i pantaloni e le gonne scuri, infine il fazzoletto azzurro annodato sul collo: mai alla Fiera dell’Est si era vista uniforme più elegante.


(Berlino 1989, la caduta del Muro)


Attenti alle date: la falange della gioventù comunista marcia orgogliosa davanti ai notabili del Partito e il cielo notturno si illumina con gli arabeschi dei fuochi artificiali nella sacra giornata del 7 ottobre 1989, quarantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare tedesca. Il 9 novembre – appena un mese dopo – il Muro cade, crolla, si sbriciola davanti agli occhi increduli del mondo. Sotto quel Muro che cede di schianto il giovane non più giovane comunista e figlio di comunisti, il reduce dei giorni remoti di Sofia, si interroga smarrito, ma già conosce la risposta. Quel mondo eroico era non più che uno scenario di cartapesta, era come i villaggi Potiomkin: le finte facciate tirate su in fretta – legno e vernice, paglia e cartone - lungo la riva del Dnepr per allietare il passaggio di Caterina di Russia durante un suo dimenticato viaggio in Crimea.

In quei giorni affannosi, il ragazzo che non è più un ragazzo cerca invano nelle strade deserte dell’Est e nella folla festante che sciama ad Ovest i biondi orgogliosi ragazzi, la falange dei giovani comunisti che sfilava gioiosa appena un mese fa. Addio alle bluse azzurre e alle gonne grigie, addio allo scudetto dorato e al fazzoletto agitato in aria a salutare i decrepiti leader del partito. Addio agli inni patriottici, ai giuramenti di fedeltà, al boato della folla che accompagna i primi fuochi che si accendono nel cielo.


(Mosca, il Museo delle forze armate)


Due anni dopo siamo tornati sulle rive dello Sprea. Nel frattempo la tempesta si era spostata ad Est, per investire a Mosca il “motore immobile” dell’intero sistema. Dalla capitale del socialismo spirava un vento freddo da fine del mondo, mentre Berlino si andava trasformando in una normale città dell’Occidente. Con squadre di operai turchi al lavoro per spiantare lastra dopo lastra le vestigia del Muro, con nuovi quartieri dei ricchi e vecchi quartieri ridotti alla miseria: la normalità occidentale di povertà e ricchezza, sperpero ed esclusione. Il collasso dell’economia socialista, la crisi industriale dell’Est creavano eserciti di disoccupati, scontenti, infuriati, con il tarlo della destra estrema che cresceva nei luoghi che avevano per quaranta anni celebrato il trionfo del comunismo.


(Orologi sovietici - foto da Reddit)


Ci chiedevamo e chiedevamo a noi stessi: cosa resta delle sorti “magnifiche e progressive”, dei sogni, dei simboli concreti di questo falso movimento che abbiamo chiamato comunismo? La fiera dell’est si era intanto trasferita dai grandi raduni e dalle marce militari ai mercatini slabbrati e polverosi che attiravano turisti lungo il tracciato delle trincee del vecchio muro. Una tristissima Porta Portese teutonica esibiva i simboli scaduti del potere e della gloria. Per pochi marchi, anche noi abbiamo portato a casa qualche triste pezzo di storia: camicie azzurre della gioventù comunista, scudetti dorati della gioventù comunista, fazzoletti azzurri della gioventù comunista, anelli in simil-oro della gioventù comunista, berretti militari grigi con greca dorata e senza greca dorata, camicie militari verde oliva, maglioni militari con maniche lunghe o corte, calzoni grigi con piega o a sbuffo, sottili cravatte grigie militari, fermacravatte dorati, cinture militari con fibbia dorata, stivali lustri o infangati, mostrine di tutti i tipi corpi e gradi, giberne di metallo o ricoperte di stoffa verde oliva, fondine per pistola senza pistola, zippo con stella rossa, fiaschetta di metallo con stella o senza stella, bussola con stella, posacenere di acciaio, quintali di spillette di plastica o metallo made in Urss, cartoline con le bellezze paesaggistiche delle città dell’Est, orologi sovietici funzionanti, orologi sovietici fermi da anni, francobolli colorati minuscoli o grandi come cartoline, pezzi strappati di Trabant detta “saponetta”, portasigarette di latta con il compasso della Ddr o la Stella sovietica, tessere di partito con fotografia accuratamente rimossa, frammenti di Muro senza colori, frammenti di Muro con colori. Fine.

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