COMMERCI E DAZI
D'EUROPA
LE RAGIONI
DI TRUMP

È opinione comune che la guerra dei dazi scatenata dal Presidente Trump sia un’altra delle sue strampalate idee e niente più che una volgare manifestazione di arroganza negoziale tipica dell’imprenditore speculatore, quale Trump sicuramente è stato (ed è).

Ma è un’opinione frettolosa e colma di pregiudizio, per il solo fatto che riguarda Trump.

Per capire il contesto dobbiamo andare molto indietro nel tempo e rileggere la storia economica, specie quei capitoli in cui si parla di diritti di passaggio o pedaggi, delle gabelle sul sale o, più apertamente, di dazi portuali applicati un po' ovunque nell’antichità. Vi ricorderete anche la comica scena del fiorino di Troisi-Benigni.

In poche parole, il protezionismo non è roba di oggi, ma va detto che oggi ha assunto un livello di sofisticazione impercettibile ma altrettanto efficace, per cui la guerra dei dazi non riguarda solo i dazi.


(Foto Abe McNatt, courtesy of The White House)


Nel 1962 viene istituito dal governo federale degli USA l’USTR (Office of the United States Trade Representative), un ente con compiti di “consigliere” del Presidente su questioni di commercio internazionale. Ogni anno è tenuto a redigere un rapporto sulle barriere esistenti nei rapporti commerciali tra USA e i paesi nel mondo. Il rapporto reso pubblico quest’anno è di 377 pagine, appendici escluse. Come dire che di barriere gli USA ne devono affrontare non poche. All’Europa sono dedicate 34 pagine; alla Cina 48. Con gli altri paesi del mondo stiamo tra 5 e 10 pagine. Attenzione però. Si parla delle principali barriere e non di tutte.

Con la premessa che ogni dazio applicato passa attraverso la WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, con l’Europa la media dei dazi è del 5% con un 10,8% sui prodotti agricoli e il 4,1% sui prodotti non agricoli. Tra questi ultimi però si arriva al 26% sui prodotti ittici, 22% sui veicoli commerciali pesanti, il 14% sulle biciclette, 10% sugli autoveicoli, e 6,5% sulla plastica e fertilizzanti.

Ma al di là delle percentuali applicate, già dal primo paragrafo della sezione dedicata all’Europa si parla di quella che definirei la madre di tutte le barriere. Pur trattandosi di una ”Unione” Europea, non vi è un insieme uniforme di norme e procedure riguardanti i rapporti commerciali, per cui ogni stato membro ha giurisdizione sul proprio territorio. Di conseguenza non un vi è un unico interlocutore europeo se non la figura del Commissario Europeo, che deve limitarsi però ad essere l’interfaccia tra le parti sebbene ogni disputa, ad esempio, debba essere trattata localmente, con tempi e metodi diversi tra paese e paese.



La Commissione Europea si è impegnata a rivedere la situazione e a snellire norme e procedure. Ma a partire dal 2028.

Curioso è anche il modus operandi dell’Europa all’interno della WTO. A quanto si legge, l’approccio dell’Europa è di non interloquire con gli altri paesi e di introdurre norme e requisiti tecnici di prodotti senza preavviso e senza possibilità di appello. Gli stessi requisiti sono spesso privi di supporto o evidenze giustificative e non corredati da analisi degli impatti dell’adozione delle norme in questione.

Lo stesso accade quando vengono stabiliti gli standard che devono essere seguiti. Anziché interloquire con le parti estere interessate, pare che i comitati europei che decidono quali standard seguire nella produzione o sviluppo escludano la partecipazione esterna o, qualora gli 'esterni' vengano interpellati, non abbiano alcun diritto di voto. Ciò anche quando gli standard stabiliti siano in contrasto con standard internazionali o persino quando questi siano ancora più stringenti di quelli che l’Europa si propone di adottare.

Una problematica riguarda anche l’etichettatura dei prodotti, le informazioni che devono contenere e pure il tipo di imballaggio del prodotto. Ad esempio, ogni contenitore in plastica deve contenere una quantità minima di plastica riciclata, e questa deve essere riciclata seguendo le norme europee previste. Ciò comporta che anche i paesi stranieri che riciclano la plastica debbano seguire le norme europee, con la conseguente necessità che tali paesi debbano attrezzarsi con enti di certificazione della conformità con le norme europee, che potrebbero persino essere diverse da quelle del paese stesso.



Che il Vecchio Continente sia sensibile (o per lo meno così dichiara di essere) alla sostenibilità è cosa ormai nota (Green Deal docet). Forse pochi sanno che questa sensibilità può essere una barriera al libero commercio. La deforestazione abusiva e/o indiscriminata è certamente un’azione criminale aberrante. Gli allevamenti di bestiame che avvengono in aree deforestate non certificate diventano quindi “non certificabili” e di conseguenza il consumo di carni provenienti da tali aree è anch’esso non permesso. A nulla è valsa l’obiezione, avanzata anche in sede WTO, che in molti casi questa certificazione non è possibile per i produttori USA, non tanto perché la deforestazione illegale è una prassi in uso ma perché non esiste la possibilità di certificare che il bestiame è stato allevato in un’area deforestata legalmente. Ne consegue che il bestiame allevato in USA o i prodotti derivati non possono essere venduti in Europa, e non possono nemmeno transitare per l’Europa anche se con destinazione extra-europea.



Tutto ciò credo che cada sotto l’appellativo “Buy European.”

Altra ulteriore dimostrazione della non-unità dell’Unione riguarda le forniture ad enti pubblici. Per una mancanza di direttiva univoca, paesi come Portogallo, Grecia, Croazia, Ungheria, Lituania, Slovenia e Slovakia sono apertamente accusati di seguire procedure di assegnazione di forniture non trasparenti o che comunque favoreggiano fornitori locali.

Il rapporto dedica l’attenzione al contenuto di fitofarmaci nei prodotti, all’utilizzo di diserbanti, metodi di pesca e una miriade di altre norme che limitano, vietano o incoraggiano l’uso di sostanze varie, di provenienze specifiche o destinazioni dubbie. Un complesso di barriere alcune protettive altre di pretestuoso ostacolo all’entrata di aziende straniere in settori vari, anche strategici.

Data la pletora di beni e servizi che la nostra società è in grado di produrre ed offrire, c’è da rimanere strabiliati dalla vastità di norme che esistono o che si possono creare ad hoc per guidare il consumo, la vendita o la produzione di essi.

Uno dei più curiosi casi elencati riguarda i servizi di media audiovisivi. L’Unione ha emanato una direttiva nel 2018, a cui i paesi membri e gli operatori devono adeguarsi, promuovendo la diversità culturale e per garantire la protezione di minori e di consumatori. Nell’adottare la norma, nel caso di servizi on-demand, parte dei cataloghi e parte dei ricavi ottenuti devono essere destinati a prodotti ed opere europee, di cui una buona parte italiani. Anche qui va tutelato il “Buy European”.



Da questi pochi esempi, è evidente che la questione dazi è una questione molto più vasta della semplice applicazione di una tariffa doganale. Così come gli effetti vanno ben oltre l’aumento del prezzo del prodotto interessato o di impedire l’importazione da noi di un finto formaggio parmigiano, “Parmesan”.

In ballo ci sono filiere produttive, investimenti che vanno in fumo o altri che necessitano. Sono in ballo milioni di posti di lavoro, rapporti geopolitici, politiche commerciali, fiscali e monetarie. Persino la salvezza del pianeta.

Quella dei dazi è una guerra nata tutt’altro che da un’idea strampalata, e Trump lo sa.

Quando si dice che il diavolo è nei dettagli.

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