L'EUROPA
MERZ
E LE ALI
DELLA FARFALLA

C’è qualche spettro che si aggira per l’Europa. Ma credo che la nomina di Friedrich Merz a Cancelliere della Grande Germania potrebbe, a differenza della scappatoia escogitata da Emmanuel Macron per salvare la Francia (e la sua presidenza), cambiare le sorti del mondo.

Per riuscirci, però, sarà necessario che metta in questione lo status quo e discuta apertamente se la strada finora percorsa dall’occidente sia stata o no quella migliore.

Ricordate il cosiddetto “effetto farfalla”? Quella teoria per cui il battito delle ali di un lepidottero può avere effetti sul clima? Il succo della teoria è che una minuscola variabile può mettere in crisi un intero sistema, anche complicato.

Quella variabile (per niente minuscola, comunque) fu l’ingresso, nel 2001, della Cina nella WTO (World Trade Organization - l’organizzazione mondiale del commercio). Gli effetti furono, per il mondo intero, tumultuosi. Tant’è che all’inizio di questo secolo si parlava dello sviluppo della globalizzazione e (appena) un quarto di secolo dopo si sta invece parlando della sua fine, la de-globalizzazione.

In politica (non solo quella nostrana) le opposizioni fanno quotidianamente tiro al bersaglio nei confronti di chi governa. In questi giorni l’attuale governo Meloni è bersagliato da critiche sulla politica industriale. L’accusa è che il livello di industrializzazione nel paese è in calo da un paio di anni.

Soluzione? Occorre una nuova politica industriale.

Certo. Ma quale?

Ed è qui che il nostro amico Friedrich Merz può essere d’aiuto.

La produzione industriale in Europa è in calo dal 2023, segno evidente che le politiche industriali attuate dai membri EU negli anni precedenti sono state inefficaci o persino sbagliate. Se è vero che nel 2023 si era all’inizio dell’uscita dal periodo pandemico è altrettanto vero che in Germania il calo è in atto da più di 5 anni. Il quadro generale è quello del seguente grafico.



L’attività manifatturiera tedesca impiega oltre 5 milioni di lavoratori e rappresenta circa il 20% del PIL, ed è strano che la Germania si sia resa conto solo di recente che i propri settori auto, aviazione civile e alta tecnologia siano in diretta concorrenza con quella cinese. Strano, ma c’è un motivo.

L’ingresso della Cina nella WTO creò ciò che venne definito “China Shock”, ovvero il trambusto socioeconomico causato dal crescente flusso di scambi commerciali con quel paese. È un dato di fatto che la Cina gode di un basso costo del lavoro rispetto all’occidente e ciò da un lato ha favorito “l’offshoring” (il trasferimento di attività produttive là dove il costo è minore) e, dall’altro, ha portato all’interruzione di intere attività e filiere produttive sostituite da importazioni cinesi meno costose.

Questo shock è alla base delle politiche economiche protezionistiche del neo-Presidente Trump, ma fu alla base anche delle numerose azioni protezionistiche del predecessore Biden, che, nei confronti della Cina, eresse non pochi dazi e altre misure ostili al commercio.

Gli impatti dello shock sui diversi paesi sono stati diversi a seconda di quanto ognuno si fosse impelagato con l’offshoring e del saldo netto dei relativi scambi commerciali con la Cina.

Nei primi anni di questo secolo la Germania rimase marginalmente impattata poiché la sua forza industriale era in settori in cui la Cina ancora non segnava una presenza importante, né in valore né in contenuto tecnologico. Questo vantaggio però iniziò a scemare con il passare degli anni, e la Germania, ma anche il resto del mondo, si trova oggi in una posizione di netta inferiorità su entrambi i fronti (valore e tecnologia), e di effettiva dipendenza dalla Cina per quanto concerne materie prime, semilavorati o prodotti finiti essenziali per la propria industria. Oggi la Cina esercita una importante presenza proprio in quei settori in cui la Germania ha esercitato un relativo dominio per anni: automotive, industria pesante, farmaceutica e tecnologia.


(Il cancelliere Merz - foto di Joerg Carstensen/photothek dall'archivio Bundestag)


Il quadro generale è ancora peggiore, visto che tanti altri paesi si trovano nella stessa situazione.

In questo contesto tutti i primi ministri, presidenti e cancellieri dei paesi interessati si stanno dando da fare per trovare soluzioni che sembrano orientarsi però in due direzioni: da un lato, dazi e altre misure protettive; dall’altro, apertura a un dialogo bilaterale con la Cina. Ma i dazi possono solo esasperare lo status quo e il dialogo a due vede comunque la Cina in posizione dominante in ogni trattativa.

Entrambi questi approcci non faranno che aggravare la situazione, e salvare posti di lavoro o poteri di acquisto richiederà molto più di referendum, incentivi fiscali o statalizzazioni di intere filiere produttive. Per questo motivo, visto lo scenario di totale stravolgimento della struttura economica mondiale, sollevare quesiti come quelli proposti dai promotori del prossimo referendum nostrano meriterebbe qualche riflessione in più.

La convinzione classica che il fallimento di un’azienda (o di un intero settore produttivo) avrebbe innescato un effetto di sostituzione con altri imprenditori subentranti, persino negli stessi stabilimenti, non trova più validità universale, per cui, nel mondo intero, interi distretti una volta attivi hanno chiuso i battenti lasciando un vuoto nel territorio, con conseguenti licenziamenti e problemi sociali su cui ancora si dibatte.

È questo il vero fenomeno che causa il calo della produzione industriale, ed ecco perché i quesiti referendari proposti sono fuori contesto: ciò che va tutelato non è il posto di lavoro ma il lavoro stesso. La questione che le organizzazioni sindacali dovrebbero porsi è a quale scenario industriale futuro ci si sta dirigendo, considerando il contesto economico e geopolitico e quali saranno gli impatti sul paese, e, di conseguenza, sul posto di lavoro.

La Cina incentiva ogni attività produttiva rivolta verso l’export e lo fa perché, pur avendo una popolazione di quasi 1,5 miliardi di persone, ha una domanda interna ancora troppo debole. Per semplificare: se un paese produce 100 ma riesce a consumare 10, dovendo vendere gli altri 90 a qualcuno li ri-dirige verso l’esportazione. Questo sbilanciamento tra produzione e consumo è ciò che produce per la Cina un saldo commerciale mondiale immenso (mille miliardi di dollari USD l’anno), che le autorità utilizzano acquistando titoli di stato di vari paesi anziché agevolare o stimolare il consumo interno.



La Germania rappresenta ancora il paese con la maggiore produzione industriale (dati Eurostat del 2023): quasi il doppio dell’Italia, più del doppio della Francia. Ed è per questo che il suo ruolo su ogni tavolo di negoziazione è fondamentale.

La Cina oggi domina nella produzione di veicoli elettrici, aviazione civile, macchinari e industria pesante, semiconduttori e nell’energia rinnovabile (pannelli fotovoltaici, batterie etc.), mentre la Germania ha un’economia stagnante da oltre 5 anni causata sia dalla crisi energetica conseguente alla guerra in Ucraina sia per un calo negli investimenti a tutto tondo, sia per esplicite scelte politiche a sfavore di alcuni settori industriali storicamente trainanti.

La conseguente de-industrializzazione di tali scelte ha ridotto e ridurrà ancora di più la capacità produttiva tedesca rivolta verso l’export e ciò non farà che aggravare il suo disavanzo commerciale verso la Cina, depauperando ulteriormente il paese e portandolo in uno stato di crisi economica e sociale continua.

Il Cancelliere Merz si trova quindi a dover ideare una via per riattivare la produzione industriale e le esportazioni che salvando la sua Germania salverebbe anche le principali economie occidentali.

Sebbene la Costituzione americana affidi al Congresso il compito di decidere se applicare misure protezionistiche, la stessa Costituzione riserva al Presidente il potere di emettere a sua firma editti a difesa degli “interessi nazionali”. E Trump ha scelto la strada del muro contro muro.

Per la Germania e i paesi aderenti all’Unione Europea la questione è un po' più complicata.

La scelta più importante che il Cancelliere deve fare è decidere da che parte stare; una decisione che deve fare i conti con gli spettri che si aggirano per l’Europa e ai quali accennavamo all'inizio, e che trascinerebbe con sè l’intera Unione Europea.

Un primo spettro è l’oltranzismo ecologico.

Ridare immediato fiato all’industria pesante tedesca (meccanica, automotive, aviazione) vuol dire rivedere in parte o totalmente il “Green Deal” europeo. Ciò si porterebbe dietro una rivisitazione dello stato attuale dei rapporti (politici e commerciali) con Cina, Russia, USA e resto dell’Europa.

Si arriva così al secondo spettro, ovvero l’avanzare delle forze politiche conservatrici.

In un mondo oggi dominato da un conflitto tra vecchio e nuovo, progresso e conservazione, passato e futuro, il dialogo, anziché una totale chiusura, con una opposizione di destra creerebbe il “caso Germania” e porterebbe il Vecchio Continente ad un punto di svolta e a fare da fulcro per un cambiamento radicale dello scenario sociale, politico ed economico europeo e mondiale.

Una scelta che muove parecchi miliardi di ogni valuta e che ha smisurate implicazioni di lungo termine che spaziano dai rapporti geopolitici all’ecologia, dalla ricerca scientifica ai vincoli di bilancio, dai flussi migratori alle guerre nel mondo.

Giostrando tra oltranzismi opposti, il Cancelliere Merz dovrà riconquistare il peso politico che il suo paese esige, ma per farlo dovrà rimettere in moto la propria economia. Anche se ciò significa un cambiamento di quei paradigmi in cui, nel nome del progresso e della “democrazia”, l’Europa si è ingessata.

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