I DAZI
DI TRUMP
E IL DOLLARO
DEBOLE

In più occasioni abbiamo sottolineato che quando si parla del Presidente Trump è meglio andare oltre il modo in cui presenta le sue idee e concentrarsi di più sui contenuti e finalità delle sue “trovate”. Durante il suo primo mandato, Trump ha fatto largo uso di dazi nella sua strategia politica internazionale e per proteggere il “Made in USA.” Il suo successore, Joe Biden, ha usato un pugno ancora più pesante e ha introdotto ancora più dazi di Trump stesso. Nell’ultima campagna elettorale, Trump non ha nascosto a nessuno che sparerà più dazi che proiettili. Ma c’è una enorme differenza nell’erigere barriere protezionistiche per gli USA o per altri paesi, e dipende dal fatto che il dollaro USA è (ancora) utilizzato come riserva monetaria da parte delle banche centrali. Questa necessità di detenere il “biglietto verde” è la naturale conseguenza degli scambi internazionali che sono, da quasi un secolo a questa parte, denominati in dollari USA. Pertanto, il paese che vende suoi prodotti negli USA viene pagato in dollari, che poi vengono utilizzati per acquistare prodotti da un altro paese che vuole esser pagato in dollari probabilmente perché vorrà acquistare prodotti dagli USA.


(Re Carlo con Justin Trudeau, primo ministro canadese)


Immaginate di voler fare un viaggio a New York. Se il vostro datore di lavoro vi pagasse in dollari, non avreste bisogno di procurarvene per il vostro viaggio. Venendo invece retribuiti in Euro, siete costretti a convertire questa moneta in dollari, acquistandoli sul mercato valutario e pagandoli al prezzo del momento (aka tasso di cambio.) Questa richiesta di dollari ha un effetto considerevole sul tasso di cambio, e, in un certo senso, “altera” il reale valore di una moneta espresso unicamente in termini di merci scambiate. Vi faccio un banale esempio. Supponiamo che gli USA vendano merci per 100 all’Italia e che l’Italia venda merci per 100 agli USA. Questo equilibrio nella bilancia (dei pagamenti) fa si che entrambe le parti non abbiano necessità di procurarsi né dollari né Euro. Se però l’Italia acquista merci per 150, dovrà procurarsi altri 50 dollari per pagare il debito complessivo che ha verso gli USA, visto che 100 li ottiene dalla vendita di proprie merci agli USA. Potrebbe darsi che un paese ne abbia 30 di troppo nelle proprie casse e sia disposto a venderli all’Italia al prezzo, ad esempio, di € 1,20 per ogni dollaro. L’Italia, acquistandoli, dovrebbe cercarne ancora altri 20 per saldare il suo debito con gli USA. Potrebbe darsi che un secondo paese abbia qualche dollaro in più nelle sue casse ma chieda € 1,30 per ogni dollaro. Come vedete, il valore attribuito al dollaro è passato da € 1,20 a € 1,30 senza che sia avvenuta alcuna variazione negli scambi di merci.

Anzi, è proprio il dollaro a diventare merce di scambio. Ripetendo queste relazioni per ogni paese che scambia merci con gli USA, ciò porterà il mercato valutario a un prezzo di equilibrio per il dollaro per cui si scambierà $1 con tot Euro, tot Yen e tot Corone Svedesi. L’effetto conseguente si riverserà sulle reciproche economie, ed è qui che nascono le esigenze di misure protettive ottenute con vari strumenti. Una volta la competitività dei paesi europei si combatteva a suon di svalutazioni. Ogni svalutazione rendeva più conveniente la propria merce rispetto al paese concorrente, ma, nel contempo, rendeva più costosi gli acquisti dall’estero. Le spirali inflazionistiche conseguenti hanno devastato molti paesi, rendendo ricchi altri. Il dazio invece è più selettivo, e consente di colpire singoli paesi e singoli prodotti. Il dazio sul prosciutto crudo colpisce i produttori di prosciutti italiani e, di conseguenza, gli allevamenti di maiali ma lascia indenni i produttori di formaggi a base di latte vaccino oltre ai produttori di prosciutti, ad esempio, spagnoli.



Giocare invece sui tassi di cambio è un’azione ad ampio spettro e colpisce il paese intero. Ridurre la “teoria del dazio” trumpiana a questo gioco, quasi elementare, sarebbe a mio avviso un grande errore. E il motivo sta nella candidatura di un certo Stephen Miran a capo dei consiglieri economici del Presidente. Il “MAGA” (Make America Great Again) di Trump vuol dire dare una scossa tellurica di potenza infinita al commercio internazionale, ai mercati finanziari e, di conseguenza, agli equilibri politici ed economici planetari. Rispondere a ogni dazio, o sua minaccia, con uno corrispondente vuol dire ignorare il gioco che c’è dietro. Corre voce che si stia perfezionando un accordo che prende il nome, come già in passato è accaduto, dal luogo dove si dovrebbe concretizzare l’accordo. La storia è piena di nomi del genere, dal Concilio di Nicea nel 325 d.c. agli accordi di Bretton Woods del 1944. Mar-a-Lago, oltre ad essere la residenza in Florida di Trump, potrebbe trasformarsi nella sede di un accordo storico che ha come finalità l’indebolimento del dollaro e il conseguente impatto sulla auspicata re-industrializzazione degli USA, essenza del “MAGA.”


(Trump e Vance durante la campagna elettorale)


Per capirlo bisogna tornare agli anni ’80 quando la banca centrale degli USA (FED), per combattere le forti spinte inflazionistiche, aumentò i tassi di interesse. La “de-regulation” imposta dall’allora Presidente Reagan stimolò un’euforica ondata di innovazioni finanziarie che, in abbinamento alla crescente globalizzazione del commercio internazionale degli anni ’90, ha ulteriormente rafforzato il dollaro e il suo ruolo di valuta di riserva, a scapito dell’industria americana. Se vi ricordate del Signore Decio Cavallo nella scena dell’acquisto della Fontana di Trevi da Totò, l’intenzione era di investire i suoi risparmi non negli USA ma in Italia. Al di là della gag comica, il fenomeno si spiega da sé. I meccanismi di aggiustamento dei tassi di cambio e le relazioni con i disavanzi/avanzi commerciali di un paese sono complicati da spiegare, ma possiamo sintetizzarli dicendo che quando una valuta è “forte” le importazioni risultano convenienti mentre le esportazioni, al contrario, sono più costose. I produttori di beni da esportazione escono di scena, sostituiti da quelli esteri. E gli USA hanno una lunga lista di esempi.

Che fare? Come si può da un lato “indebolire” il dollaro e consentire una re-industrializzazione del paese e nel contempo rafforzarlo in un’ottica MAGA? La “National Security” (sicurezza nazionale) è una cosa molto sentita nelle stanze dell’amministrazione presidenziale USA, al punto che esiste un segretissimo ufficio, a cui hanno accesso in pochissimi, chiamato “Office of Foreign Assets Control.” È da lì che partono le direttive da cui dipendono le negoziazioni economiche tra gli USA e i singoli paesi, rendendo il biglietto verde un’arma negoziale oltre che uno strumento di scambio commerciale. Pensate, ad esempio, all’esclusione della Russia (ma anche di altri paesi “nemici”) dal sistema di pagamenti internazionali SWIFT. Non vi sono conferme (né smentite) che il piano di lungo termine per indebolire il dollaro preveda la trasformazione del debito pubblico USA in mano agli stati esteri da titoli a rendimenti periodici (con cedole trimestrali, semestrali o annuali) in titoli con scadenze lunghissime (si parla di 100 anni) detti “zero coupon”, ovvero che non offrono cedole ma vengono venduti con uno sconto sul valore nominale. Il rendimento del titolo è nello sconto.



È evidente che questo tipo di strumento alleggerisce il bilancio statale degli oneri degli interessi annuali da pagare (al momento il peso sul bilancio annuale USA è arrivato a $ 1 trilione - ovvero un milione di miliardi!) liberando risorse per altri scopi a difesa della “National Security” (riarmamento incluso). Il teorema del Sig. Stephen Miran non è per nulla campato in aria, richiede tempo e un supporto da parte della FED. Ma i vantaggi in termini di volatilità dei tassi di cambio dollaro/resto del mondo, i benefici sul bilancio federale e la struttura industriale americana conseguente elevano la posta in gioco a livelli altissimi. Ma chi accetterebbe un simile scambio? Intanto si partirebbe dai paesi che hanno più da perdere in un confronto con gli USA, anche considerando che (come disse J.M. Keynes a suo tempo) “nel lungo periodo saremo tutti morti.” E per fare quell’offerta che nessuno può rifiutare, quale strumento è più convincente di un dazio?

Il percorso di indebolimento del dollaro probabilmente dovrà passare per una fase di rafforzamento, proprio a causa dei dazi, che verranno, a loro volta, usati come mezzi di scambio. Non a caso Trump ha più volte indicato che le intenzioni sono di attirare investimenti esteri negli USA in cambio di un alleggerimento dei dazi. Lo ha fatto con l’Europa, lo sta già facendo con la Cina. E, a seguire, con Russia, paesi arabi etc. In questo modo, la fiducia nell’economia USA cresce, insieme al suo PIL, e la macchina riparte a pieno regime. Cos’altro si può desiderare? Insomma, sarebbe davvero miope considerare l’attuale amministrazione USA sprovveduta e strafottente. Al contrario, qualora riuscisse nel suo intento, Trump potrebbe essere l’artefice di un cambiamento radicale negli scenari economici e geopolitici mondiali. La dottrina Monroe nel corso del tempo (risale al 1820) ha solamente ampliato i confini ma resta sempre la stessa, a prescindere da chi governa: non si tollereranno interferenze di altri stati nell’esercizio dell’egemonia USA nel mondo. Costi quel che costi, e più non domandare.



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