OSCAR
STRAVINCE
L'INDIE
"ANORA"

I “bookmakers" di Gold Derby, il miglior sito dedicato alla previsione dei premi cinematografici e televisivi, hanno fatto centro. “Anora” il piccolo-grande gioiello di Sean Baker ha vinto l’Oscar 2025 come miglior film assoluto, corredato da altre quattro statuette, alla deliziosa Mikey Madison come miglior attrice protagonista, a Sean Baker per regia, sceneggiatura originale e montaggio. Che en plein! Un trionfo che sigilla il primato dell’arte rispetto a quello del dollaro, “Anora” racconta la storia dolceamara di una giovane spogliarellista-escort di Brooklyn finita in una love story pericolosa e grottesca con Ivan (Mark Ėjdel’štejn, un giovane attore che si pappa in un boccone il tanto celebrato e ubiquo Timothée Chalamet), il figlio perdigiorno ma tanto simpatico di un oligarca russo. Costato appena 6 milioni di dollari, ne ha incassati sette volte tanto e ha fatto ridere e commuovere le platee di mezzo mondo, confermando lo sguardo acuto del regista verso figure di perdenti che sanno tenere alta la testa della dignità, sensibilità già mostrata in “Un sogno chiamato Florida” del 2017, protagonista Halley (Bria Vinaite) ragazza madre irrequieta e vitale che se la sfanga in un condominio ultrapopolare a pochi chilometri dal Walt Disney World. Un cinema indie che sale sul podio più alto non può che far godere gli aficionados e tutto il pubblico meno propenso a effettoni e storie precotte.


ANORA


“Anora” ci parla di un’America vera, sideralmente lontana da Mar-a-Lago, la barocca e volgare Camelot dove Donald Trump accoglie e investe feudalmente i suoi maggiordomi politici. C’era peraltro anche lui, l’immobiliarista newyorchese diventato il Marchese del Grillo delle relazioni internazionali (io sono io e voi non siete un c…o) al Dolby Theater di Hollywood con “The Apprentice”, implacabile cavalcata dell’iraniano-danese Ali Abbasi negli spregiudicati anni giovanili del tycoon, interpretato da Sebastian Stan, candidato all’Oscar come miglior attore insieme al bravissimo Jeremy Strong della serie “Succession”, qui nel ruolo del suo avvocato e mentore, entrato nella cinquina finale come miglior attore non protagonista.


THE APPRENTICE



A COMPLETE UNKNOWN


Statuetta questa andata - vedi le coincidenze - a Kieran Caulkin, irrequieto fratello minore di Strong in “Succession” e fratello reale di Macaulay Caulkin, ve lo ricordate in “Mamma, ho perso l’aereo”? Kieran si scatena anche in “A real pain” di Jesse Eisenberg, nei panni dell’ebreo Benji, impegnato in un viaggio della memoria in Polonia col cugino David: l’Oscar ci stava tutto, con qualche rammarico per un altro candidato nella stessa categoria, Edward Norton, un Pete Seeger immenso in “A Complete Unknown”, film di James Mangold rimasto a becco asciutto nonostante le otto candidature, come quelle di “Conclave”, il thriller papalino di Edward Berger con Ralph Fiennes che si è dovuto accontentare dell’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, firmata dall’inglese Peter Straughan.


A REAL PAIN


Se la vittoria del film di Sean Baker, già vincitore della Palma d’Oro a Cannes e di vari premi di categoria (il PGA dei produttori, il DGA dei registi e il WGA degli sceneggiatori) era nell’aria, molto meno favorito era un altro piccolo-grande film, stavolta animato, “Flow-Un mondo da salvare” del lettone Gints Zibalodis che si è portato a casa l’Oscar di categoria battendo “Il robot selvaggio” del mostro sacro Chris Sanders targato DreamWorks e Universal e “Inside Out 2” della Disney.


LA NOTTE DEGLI OSCAR
TUTTE LE STATUETTE


“Flow” è pura poesia, parla di un mondo post-apocalittico invaso dalle acque e del viaggio verso la difficile salvezza di un plotoncino di animali sopravvissuti, guidato da un indomito gattino. Animazioni prodotte tra Francia e Belgio, 3,5 milioni di euro raggranellati qua e là con un semplice software open source per un’odissea tessuta di peripezie e progressiva solidarietà tra gli animali naviganti delle più diverse specie, dal felino protagonista a un cane Labrador, da un lemure a un uccello serpentario e a un capibara. Disegni un po’ spigolosi, meno armoniosi tecnicamente delle produzioni più ricche e però pieni di ispirazione e giocati magicamente con un uso pittorico di sfondi e colori. Evviva.


FLOW


Nessuna sorpresa per il migliore attore protagonista, l’Oscar è finito nelle mani dello strepitoso Adrien Brody, mattatore, nei panni dell’architetto László Tóth, del fluviale, geniale “The Brutalist” di Brady Corbet, regista trentaseienne dell’Arizona che regalerà sicuramente altri gioielli. “The Brutalist” è stato premiato anche per la miglior fotografia, di Lol Crawley e la miglior colonna sonora, del giovane londinese Daniel Blumberg. Per la cronaca: è il secondo Oscar a Brody, dopo quello vinto con 'Il pianista' di Polanski ventidue anni fa. Questi Oscar 2025 si sono caratterizzati per coraggio e sensibilità, hanno puntato ai valori e le scelte del carrozzone dell’Academy (diecimila votanti) mai come stavolta sono apparse fresche, libere e difficilmente contestabili.


THE BRUTALIST


Dieci candidature aveva ottenuto “The Brutalist”, titanico, impietoso ritratto di una emigrazione e di una integrazione fallita negli Usa del capitalismo più feroce, addirittura tredici “Emilia Pérez” di Jacques Audiard, imperniato sulla storia (vera) di un crudele narcos messicano deciso a diventare donna, interpretato dall’attrice transgender spagnola Karla Sofia Gascón. Candidata all’Oscar come miglior attrice anche in ossequio al politically correct, si era azzoppata da sola con tweet e dichiarazioni anti-islamiche un po’ fuori misura e la statuetta è finita nelle mani di Mikey Madison. Immaginiamo una certa delusione pure per Demi Moore, candidata come miglior attrice per “The Substance” della francese Coralie Fargeat, fantathriller distopico con una ex diva tv a caccia dell’eterna giovinezza. Un “terreno” autobiografico per Demi Moore, uscita con coraggio da un periodaccio alcolico e da una serie infinita di interventi di chirurgia plastica.


THE SUBSTANCE


Sembrava la candidata ideale per una storia di riscatto di quelle che piacciono all’Academy, ma quest’anno il vento soffiava verso lidi diversi: dimentichiamoci lo scontro tra colossi hollywoodiani dell’anno scorso, con “Oppenheimer” trionfante (sei statuette) su “Barbie” (una per la miglior canzone). “Emilia Pérez” ha comunque conquistato due Oscar, per la miglior canzone originale, “El Mal” di Jacques Audiard, Camille e Clément Ducol e a Zoe Saldana come miglior attrice non protagonista, categoria dove era candidata anche la nostra Isabella Rossellini, tosta suor Agnes in “Conclave”. Poco da fare con Saldana, sontuosa, vibrante, e pure brava interprete del brano vincitore. Chapeau.


CONCLAVE


A chiudere l’autentica festa per un cinema di spessore artistico e civile il riconoscimento come miglior film straniero a “Io sono ancora qui” del brasiliano Walter Salles, ambientato negli anni bui della dittatura in Brasile con una straordinaria Fernanda Torres, a interpretare Eunice la dolente, intrepida moglie di un architetto resistente e per questo torturato e ucciso. E gran soddisfazione per l’Oscar come migliore documentario a “No Other Land”, girato tra mille rischi a Masafer Yatta in Cisgiordania dal palestinese Basel Adria col giornalista ebreo Yuval Abraham, novantasei minuti ad alta tensione emotiva per consegnare in eterno agli archivi della memoria le trentennali vessazioni dei coloni israeliani ai danni di un popolo crudelmente scalzato dalla sua terra.


EMILIA PEREZ


Hollywood ha mandato messaggi forti, quasi insperabili, sia sul lato della produzione artistica che su quello della piena intenzione a promuovere un cinema “a occhi aperti”, non pigro, non soltanto dominato dalle megaproduzioni e attento ai nuovi talenti. Mai ci volevano segnali così come in questo giro di tempo segnato da molti conflitti, prepotenze e paure.

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