ARMENIA
DI CONFINE
FRAGILE
E GENTILE

Mi sembra impossibile dopo averla conosciuta, ancorché superficialmente, non provare simpatia per questa terra. Così è per me, per noi che ci siamo arrivati dopo un volo di circa cinque ore Milano-Yerevan con transfer a Vienna. Ci aspettava Araxia, docente di italiano all’Università di Yerevan: la nostra guida per una settimana.



Tanto per dare un’idea del posto, la superficie dell’Armenia è una volta e mezzo quella della Lombardia e la popolazione un po’ meno di un terzo. Dei suoi tre milioni circa, la metà abita a Yerevan, la capitale, dove noi alloggiavamo in un albergo quattro stelle; il manager e il cuoco sono italiani. Yerevan è un cerchio di vie bordate da una periferia di colline che si aprono verso sudovest. Il centro, Piazza della Repubblica, si raggiunge in venti minuti a piedi: viali alberati, fontanelle, panchine fin che se ne vuole, street food. La sera ci si raduna lì; una grande fontana offre giochi d’acqua, luci e musica in sincrono. Dalla piazza, deviando a nord, si arriva al Teatro dell’Opera di sovietica memoria.


(Piazza della Repubblica, a Yerevan)


Si passa per altre piazze verdi con i monumenti dedicati al poeta Sayat Nova, a Khachaturian e a Komitas vardapet (titolo ecclesiastico), anche lui musicista, che compose del suo e da musicologo raccolse i canti del popolo guadagnandosi così la giusta fama e il ricordo. Fu incarcerato all’epoca del massacro degli armeni nel 1915 e liberato grazie a interventi esterni, ma la vista della barbarie lo aveva reso folle e finì i suoi giorni a Parigi in una clinica psichiatrica. E ci si trova ai piedi della Cascade: un imponente fontana a gradoni di circa 300 metri che dal piano stradale sale fino all’altezza delle colline. Potete salire a piedi, ma negli spazi interni che raccolgono una collezione d’arte cinque rampe di scale mobili vi portano al terrazzo più alto che apre alla vista della città. E lì ho capito cosa voleva dire ciò che già sapevo.


(La Cascade)


All’orizzonte incombe l’Ararat. “Ararat” è forse la parola che ricorre più frequentemente. È quasi un logo: così si chiamano anche l’ottimo cognac da portarsi a casa e la squadra di calcio locale. Il nome è quello del monte su cui secondo la tradizione si posò l’Arca, sacro per gli armeni che si vuole discendano da Haiq, della stirpe di Noè: l’Armenia, in armeno, è l’Hayastan. Dire che incombe non è esagerato: l’Ararat è alto 5137 metri e dista da Yerevan in liea d’aria solo una cinquantina di chilometri. Ma è al di là del confine turco. Ogni mattina il sorgere del sole ripresenta agli armeni l’oggetto d’amore, simbolo ad un tempo della loro identità e del loro sterminio.


(Il Memoriale del genocidio)


In città altri luoghi hanno grande valore simbolico: uno è inevitabilmente il Memoriale del Genocidio. Il museo documenta con testi e immagini i fatti del 1915. All’esterno, in un vasto piazzale, una stele di circa quaranta metri e accanto una fiamma perpetua racchiusa da un cerchio di monumentali lastre di basalto inclinate verso il centro; dodici, come le antiche regioni dell’Armenia. E un altro è il Materadaran; in armeno sta per ‘biblioteca’. È un’istituzione che custodisce diciassettemila manoscritti e centinaia di migliaia di documenti, frutto del plurisecolare lavoro dei monaci copisti. All’ingresso, un monumento celebra il dedicatario, il monaco Mesrop Mashtots che con la mano destra indica una lapide. Su di essa è inciso l’alfabeto armeno che da lui sarebbe stato ideato nel V secolo, costruito a partire dai fonemi della lingua parlata, progressivamente integrato fino alle attuali 36 lettere. Un evento fondamentale, poiché ad esso si lega il consolidarsi della chiesa armena, della cui importanza si dirà di seguito.



Fuori da Yerevan, l’Armenia è fatta di piccoli villaggi e di panorami a perdita d’occhio. Abbiamo visitato non so quanti monasteri, tutti databili tra il X e il XIV secolo: basalti, graniti, blocchi di tufo. Anch’essi sono legati al difficile permanere degli armeni nei secoli. Sono state cittadelle fortificate. In molti edifici la parte antistante la chiesa vera e propria è costituita da un ampio locale, il gavit, grande quanto basta a contenere la gente della comunità nella sua veste di cittadini, occupata in pace in cose profane e rifugio nei momenti di pericolo. La profusione di monasteri è il segno tangibile della religiosità degli armeni. La loro conversione al cristianesimo è degli inizi del quarto secolo (“i primi in oriente”, ci informa Araxia quasi con orgoglio) e il sopravvivere di questi luoghi di culto a scorribande e devastazioni è un altro forte simbolo identitario.

Per uscire dal monastero di Saghmosavank, bisogna fare un gradino. Sulla soglia Maria è a fianco di una donna anziana, cieca, che tende la mano per essere aiutata. Trova quella di Maria, ma è sconosciuta e l’anziana spaventata si ritrae. Da dietro, una voce femminile le dice qualcosa in armeno. Ora la mano può prendere quella di Maria. La signora le dice “Spazibo”. E fa il gradino.


(La fortezza di Amberd)


Siamo saliti dai 998 metri di Yerevan ai 2300 delle rovine della fortezza di Amberd in un ambiente fatto di valloni profondi, veri e propri canyon, e pascoli sconfinati in cui puoi scorgere accampamenti di pastori nomadi. E poi Sevan, piccola città con quartieri popolari che esibiscono la loro matrice sovietica. Il villaggio da il nome al lago. Il Lago Sevan è esteso per più di mille chilometri quadrati: un mare per l’Armenia che non ha, come fu nella Grande Armenia del III e IV secolo, sbocchi né sul Caspio né sul Mar Nero. Aveva un’isola; oggi, a causa della captazione delle acque che lo ha abbassato di quarantuno metri, ha una penisola: anche su di essa poggia un monastero, che quindi può essere raggiunto a piedi; cosa che non fu per Mandelštam, che su quell’isola era vissuto per un mese nel 1930.

A Noradruz, o meglio nel suo cimitero, trovate una distesa di centinaia di khachkar: grandi lapidi su cui è scolpita una croce. Su di essa non è mai raffigurato il Cristo: dal piede della croce risale un intreccio di decorazioni: dalla morte si rinasce.



A sera si torna.

L’Armenia è europea. È occidente e oriente. I confini a est con l’Azerbaijan e a ovest con la Turchia sono chiusi; sono aperti verso nord, con la difficile situazione della Georgia, e a sud con l’Iran. L’Armenia ha una bandiera di tre fasce orizzontali. Araxia ci disse che quella blu è il cielo, la rossa il sangue degli Armeni e la più bassa, arancione, l’albicocca. Il legno dell’albero è usato per fabbricare il duduk, un flauto che ha un’ancia larga a becco d’anatra e un meraviglioso suono, dolce e intenso con una vena di tristezza.

L’Armenia è un paese fiero, gentile e fragile. Ricorda.

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