Dopo il mitico saggio “Il popolo del Blues” di Leroi Jones, poeta ed intellettuale di colore americano tradotto e pubblicato in Italia da Einaudi nel 1968, nessun libro in Italia aveva affrontato la musica afroamericana dal punto di vista storico, politico e del costume. Ha rimediato ora la Hoepli pubblicando “La storia della Black Music” di Roberto Caselli, che oltre a ripercorrere la storia del popolo afroamericano e delle sue espressioni musicali - dagli Spiritual al Blues al Jazz al Soul e al Funky - arriva fino ai fenomeni musicali più recenti come il Rap, l’Hip Hop e il Trap. Il volume fa parte di una collana curata da Ezio Guaitamacchi che ha già visto la pubblicazione di storie del Rock, del Jazz e del Blues, quest’ultima pure opera di Caselli. Il libro è ricco di foto, di box con focus su eventi e personaggi, nonché di numerosi QR Code che permettono l’accesso sia all’ascolto di brani selezionati dall’autore sia ad un extended book con approfondimenti collegati.
Abbiamo incontrato Roberto Caselli, giornalista musicale che, oltre ad aver pubblicato diversi libri, è conduttore radiofonico e ha diretto riviste come Hi Folk! e Jam.

Ulrico Hoepli Editore, 2024 - Pagine: 320 - Prezzo: € 32,90
Per prima cosa gli abbiamo chiesto: come è nata l’idea di questa Storia della Black Music?
"La genesi di questo libro è stata complicata. Inizialmente pensavo ad un lavoro centrato sul Soul e il Rhythm’n’Blues, ma poi mi sono reso conto che su questo tema c’erano già diversi libri americani, alcuni anche tradotti ed editi da noi. A quel punto ho concordato con Guaitamacchi di affrontare un discorso più ampio, includendo tutta la Black Music americana. La prima cosa che ho pensato è stata di dedicare un capitolo al Colonialismo. E non solo a quello britannico, che interessa più direttamente il Nord America, ma anche quelli francese, portoghese e spagnolo. Infatti la diaspora nord africana, la tratta degli schiavi, ha riguardato anche l’America centrale e meridionale, come Haiti, la Giamaica e il Brasile. Tra il Cinquecento e il Settecento, le nazioni europee hanno avuto bisogno di manodopera nelle terre scoperte e conquistate, per coltivare la terra o lavorare nelle miniere. Le popolazioni locali, in parte sterminate e in parte schiavizzate a loro volta, non erano sufficienti per sfruttare a fondo gli immensi territori. Questo capitolo introduttivo mi sembrava necessario per capire gli sviluppi successivi ma per l’editore era troppo strettamente storico e avrebbe tolto spazio ai risvolti musicali. Alla fine mi sono limitato a trattare il Colonialismo britannico e il resto è stato spostato nell’extended book".

Infatti nel secondo e terzo capitolo, e in parte del quarto, c’è la storia del Blues.
"Sì, del Blues ma anche dello Spiritual e del Gospel. I canti di lavoro nascono come uno sfogo e come primo elemento di unione e di consapevolezza. E poi arriva il Jazz, a partire dalla straordinaria fucina che è stata New Orleans. A Storyville, quartiere francese pieno di bordelli, i creoli ed i neri hanno inventato il primo Jazz, partendo dal Ragtime. E diedero il loro contributo anche tanti disperati arrivati dall’Europa, tra cui molti dal sud Italia, che nella scala sociale erano praticamente equiparati ai neri. Poi nel 1917 la Marina chiuse Storyville e molti artisti furono costretti a migrare verso il nord degli States".
E il jazz trova nuove capitali, come New York e Chicago. Nel libro sono citati tutti i più grandi protagonisti ma non bisogna aspettarsi sezioni monografiche. Ad esempio, si parla del contributo di John Coltrane, c’è anche una sua foto, ma non una sua biografia e discografia.
"Artisti come Coltrane vengono collocati nel proprio contesto, si dice quale contributo innovativo hanno dato, ma sono spunti per poi approfondire tutto il resto altrove, sulle tante pubblicazioni specifiche già esistenti".

Negli anni Cinquanta e Sessanta il Jazz da fenomeno popolare diventa più intellettuale, di ricerca e anche più vicino alla politica, alle lotte antisegregazioniste.
"Sì, e in ogni caso il nero produce sempre una musica trasgressiva perché legata alla propria identità, alle proprie tradizioni, riproponendo la ribellione allo status in cui si trova costretto a vivere. Invece i discografici favorivano le formazioni bianche che imitavano i neri ma privando la loro musica dell’aggressività che ne era tipica, rendendola più fruibile all’orecchio occidentale. Lo Swing di Count Basie è una cosa, quello di Benny Goodman – pur valido - è un’altra. Questo diventa ancor più evidente con il Bebop e, soprattutto, con il Free jazz, che però ha maggior presa sugli intellettuali europei che non sulla popolazione di colore americana. Invece nel ghetto nasceva il Funky, che soddisfava il bisogno di ballare. Da lì escono fenomeni come James Brown. Poi in seguito arriva la Disco Music, che nasce come musica nera ma se ne appropriano presto i dj bianchi".

Ci sono però anche etichette gestite dai neri, che hanno pubblicato la musica degli artisti neri…
"Certo. Ad esempio la Stax, che pubblicava Aretha Franklin e Otis Redding. E poi la Motown, che ha contribuito molto a diffondere il Soul, il Ryhtm’n’Blues e il Funk tra il pubblico dei bianchi, con artisti come Stevie Wonder, Smokey Robinson, Diana Ross e Marvin Gaye".
I due ricchi capitoli che chiudono il libro sono dedicati alle ultime evoluzioni della musica nera: dal Rap all’Hip Hop fino al Trap.
È senz’altro l’ultimo gradino di una lunga scala. Negli anni Sessanta e Settanta le grandi manifestazioni per la difesa dei propri diritti erano l’unico modo di rendere visibile il malcontento da parte della popolazione di colore. Ma si tenevano in poche grandi città, richiedendo lunghi tempi di preparazione e spesso con l’omertà dei media. Oggi invece, con l’avvento di Internet, c’è la possibilità per tutti i militanti del Black Lives Matter, l’associazione creata dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia, di condividere direttamente e istantaneamente su tutto il territorio nazionale la notizia di un eventuale atto violento subito da un nero. Questo permette l’organizzazione in tempo reale di atti di protesta in ogni parte degli States. Il Rap è nato come espressione musicale dal vivo, nelle strade e nelle piazze: denunce verbali fiume anche di 40 minuti, impossibili da trasportare su disco. Gli stessi primi grandi nomi del Rap (DJ Kool Herc, Afrika Bambaataa, Grandmaster Flash) inizialmente si rifiutarono di comprimere in 3-4 minuti i loro brani, ma la produttrice di colore Sylvia Robinson riuscì a convincerli ad incidere. Il risultato fu di milioni di dischi venduti e così la voce del ghetto trovò spazio anche su disco. Brani come “The Message” e “Rapper’s Delight” ebbero un enorme successo".

Il libro dà spazio anche al Reggae e alla Bossa Nova, forme musicali nate in Giamaica e in Brasile, ma anch’esse con origini afro…
"Esatto. In Brasile ci fu il colonialismo portoghese e anche lì c’è stato lo schiavismo. Quindi anche lì ci sono state forme di cultura di matrice africana, ma con un’evoluzione autoctona. Nascono il Samba e la Bossa Nova: espressioni anche gioiose, legate al ballo, ma anch’esse nate per reagire ad una situazione di profondo disagio e in seguito legate alla contestazione politica dei regimi militari. In Giamaica invece c’erano gli inglesi e spesso i neri per sfuggire alla schiavitù si rifugiavano in montagna e creavano delle enclavi, oggetto di repressione da parte del potere costituito, in cui nacquero lo Ska e il Reggae".
Questo è un libro che aiuta a capire, a creare dei collegamenti tutt’altro che scontati, che affronta la black music nel continente americano come espressione della rivolta razziale. Si parla delle correnti musicali, citandone i protagonisti, ma senza approfondire le biografie dei singoli artisti. Non si tratta di una sorta di enciclopedia della Black Music, ma di una storia di quella americana derivante dallo schiavismo. Lo stesso Rock con le sue star, alcune anche nere come Jimi Hendrix, non viene trattato: è da considerarsi un fenomeno prettamente bianco?
Il Rock’n’Roll nasce dai neri, era una loro prerogativa, ma viene poi assorbito e rilanciato dai bianchi. Da qui nasce poi, in Inghilterra, il Beat e quindi il Rock. Anche la svolta verso il Rock e l’elettrico da parte di jazzisti neri come Miles Davis, per citarne uno su tutti, non l’ho messa nel libro perché, pur spesso di qualità, è stato fondamentalmente un fenomeno legato all’industria discografica dei bianchi. Scopo del libro è parlare della Black Music in quanto espressione del disagio razziale. Il filo rosso è l’orgoglio del nero che rivendica una forma di espressione propria che racconti di sè".
Per chiudere, viene da chiedersi: che avverrà in futuro? Tra venti o cinquant’anni sarà di nuovo necessario fare un aggiornamento della storia della Black Music oppure, come in fondo tutti auspichiamo, si arriverà ad una vera integrazione sociale e culturale tra bianchi e neri con forme di espressione musicale che non nascano da tensioni e conflitti? Oppure invece è proprio da questi presupposti che scaturiscono pagine di musica tanto stupende e creative? Infatti, come scrive nella prefazione il bluesman nero americano Ronnie Jones: “Nulla di nuovo nasce senza pagare pegno al passato”.