Si apre al pubblico il 29 settembre una personale di Danilo Maestosi, "Le tele di Penelope. Partitura a schema libero in 5 movimenti", al Museo Hendrik Christian Andersen, diretto da Maria Giuseppina di Monte. Casa-museo dello scultore norvegese-americano, vissuto a Roma dalla fine del XIX secolo fino alla morte, la palazzina fu fatta costruire da lui e decorata a partire dal 1922 in stile eclettico neo-rinascimentale. L'esposizione, curata da Erminia Pellecchia con la collaborazione di Maddalena Paolillo, resterà aperta al pubblico fino al 29 ottobre 2023. Pubblichiamo qui la presentazione di Nicola Fano dei lavori di Maestosi.
La dannazione di Penelope è il tempo. Fare e disfare la tela, almeno all’inizio, è l’arma che sceglie per difendersi. Le opere di Danilo Maestosi esposte al museo Andresen di Roma partono da qui, dalla gabbia del tempo; dalla lenta presa di coscienza, da parte di Penelope, della ineluttabilità di questa gabbia. E dal fatto che esiste sempre la possibilità – mai fino in fondo colta da Penelope – di un gesto rivoluzionario, uno strappo, una rivolta finale, per dare un senso alla vita. Come farà Medea, in fondo; ma questo lo vedremo meglio poi. Penelope no, lei sceglie il tempo come suo vero padrone: è la sua ossessione.
Graffiare il tempo è – anche – il fine della pittura di Danilo Maestosi. Come lui, tutti gli artisti, in ogni epoca storica, hanno sempre dovuto combattere contro l’impossibilità di fissare il tempo sulla tela. In origine c’è stata la pittura plastica, che riteneva di poter vincere la sfida dipingendo il movimento dei corpi; e su questa strada i secoli successivi hanno rispettato la prescrizione dei maestri. Poi è stata la volta della luce: il prima e il dopo della luce, disposti nei quadri sotto forma di ombre tremolanti. L’abbaglio della candela di Caravaggio non è mai fermo: nella fissità, esso prevede un prima e un poi. Infine, quando Picasso e le avanguardie hanno rotto l’assedio della cornice (e la tela ha smesso di essere l’otturatore di una macchina fotografica umana), i nostri futuristi hanno immaginato di dipingere lo spostamento delle forme nel tempo (più che nello spazio come i pittori plastici delle origini).
Danilo Maestosi parte da qui, da Boccioni.
Ma è come se avesse fatto un percorso a ritroso: dalla velocità futurista all’indietro fino al Mito classico. Perché l’origine – anche quella del tempo – è lì. E che cosa c’è di più mitico, in chiave temporale, della tela di Penelope? Ma la tela dipinta da Danilo Maestosi non si ferma alla leggenda della regina di Itaca: va a ricercare il pensiero che sta dietro quel suo fare e disfare; che diventa, lentamente, una propensione di Penelope all’ineluttabilità del procedere – a volte frenetico – della vita. La vita è tempo che scorre. Il Mito, all’epoca dei greci, assumeva senso dalla sua capacità di fornire indicazioni concrete: era lo strumento che i filosofi e i tragedi hanno inventato per trasferire il Caso alla vita quotidiana. Il problema era passare dal Mito alla Razionalità. Perché, per non essere puro capriccio degli dei, il Fato deve assumere i contorni di una persona, un individuo in carne e ossa; non solo quelli materiali (le facce, gli occhi) bensì anche quelli interiori: i sentimenti dominanti, come ci ha insegnato Shakespeare. Ci ricordiamo il dubbio più di Amleto, la gelosia più di Otello, la bramosia di potere più di Riccardo III. Allo stesso modo, Danilo Maestosi porta in primo piano la dannazione del tempo di Penelope, più ancora che la moglie di Ulisse.
Nelle opere di Danilo Maestosi esposte a Roma non bisogna andare a cercare i contorni materiali – le facce e gli occhi, che, pure, alle volte ci sono, come vedremo – ma l’alternarsi di illusioni e delusioni, rabbia e coraggio. La successione dei colori è funzionale a questo movimento emotivo: i bianchi e i rossi, il blu, il verde, il nero. È il “trucco” che Danilo Maestosi ha escogitato per uscire dalla gabbia del tempo: un orologio mosso dall’eterno dondolio delle emozioni legate ai colori. E, volendo cercare un Mito così strettamente annodato a questo “movimento”, che cosa c’è di meglio di Penelope? Anche a di là della sua proverbiale tela. Che pure è centrale, in questi dipinti: guardate i lacerti di colore trascinati gli uni sugli altri: una trama che si fa e si disfa. Con i segni del fondo che affiorano nelle pieghe del dipinto. È come se Penelope graffiasse la sua tela, piuttosto che tesserla: queste rigature manifestano una stizza che sconfina spesso nell’incomprensione; la tela di Penelope diventa la sua rabbia o il filtro attraverso il quale lei sceglie di vivere la vita sua e degli altri, come dietro a una grata da confessionale. Ossia quel luogo appartato dove si confessano i peccati e dove si aspetta l’assoluzione. Questa è la vita di Penelope: aspettare. Non è così – aspettare – la vita di chiunque? Lo ha spiegato bene Beckett: solo ponendosi nella condizione di farsi sorprendere – solo aspettando – può succedere che la vita ci si riveli per quel che è, una concatenazione di casi. Aspettando Ulisse, Penelope vive, incontra, piange, si rallegra: la sua tela ne è il respiro.
A che cosa serve l’ossessione di Penelope? È risolutiva questa sottomissione al dominio del tempo? Non sarebbe più utile, al contrario, un atto di rivolta violenta come quello di Medea? Oppure non sarebbe, invece, più saggio affidarsi totalmente al Caso, come Arianna, che aspetta dal Caso l’occasione giusta per la sua vendetta? Nelle tele di Danilo Maestosi c’è proprio questa sequenza di domande: la vita è seguire la propria volontà o affidarsi al proprio destino? È meglio essere se stessi o non esserlo? Penelope è una delle prime figure mitiche a porsi questo interrogativo. E, se cercate la risposta, la troverete nelle opere di Danilo Maestosi: la soluzione è essere pronti. Vigili e presenti, accompagnando il Caso con le proprie emozioni che si fanno gesto pittorico. Questo senso hanno le figurazioni “umane” che, di quanto in quando, compaiono qui nei suoi dipinti: sono i contorni di Penelope che osserva, che si adatta al proprio Destino, prende le misure e vive dentro di esso, riversando nella sua tela le rabbie e il coraggio di cui s’è detto.
In questa scelta, solo in apparente contraddizione con la lunga, pura stagione astratta della pittura di Danilo Maestosi, c’è il segno di quel “movimento” di cui si sta parlando: il suo modo di uscire dall’ossessione del tempo. Perché il mondo cambia anche quando ci sembra che il via vai della tela di Penelope sia la certificazione finale di una immota negazione della speranza. No, le cose cambiano, i volti nascosti affiorano, la tessitura di una tela diventa graffio sul passato. L’importante è essere pronti; e Danilo Maestosi ora è pronto per il suo prossimo ciclo.