TRADUZIONE
QUEL CAMMINO
TRA LA FOLLA
DELLE VOCI

Quello del traduttore è per certi versi un mestiere ingrato.

Non farà i milioni, e va bene; ma anche sul versante generalmente risarcitorio della gloria ha difficoltà a mettersi in pari. Se il suo ruolo viene sottolineato, in genere è per rimproverargli qualche infedeltà ("traduttore/traditore", come da detto). Nel migliore dei casi può aspirare alla sparizione, alla mimesi totale con il "suo" autore – idealmente, meno lo si sente più bravo è.


(Il confronto fra le traduttrici al Salone)


Da venticinque anni a questa parte, però, chi traduce in Italia è un po' meno invisibile di prima; questo grazie a Ilide Carmignani, a sua volta grande traduttrice dallo spagnolo (le dobbiamo, tra le altre cose, molto di ciò che di Bolaño è arrivato da noi, nonché la resa in italiano della 'Gabbianella e il gatto' più famosi della letteratura mondiale). Nel 2000 Carmignani – insieme all'allieva Elena Rolla – decide di scrivere a Ernesto Ferrero, allora direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino. La richiesta avanzata è quella di uno spazio dove si possa parlare di traduzione, confrontarsi su ciò che Susan Sontag definiva "il sistema circolatorio delle letterature del mondo".


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L'idea potrebbe sembrare naturale ma è tutt'altro che scontata: in quel momento in nessun'altra fiera del libro europea esiste ancora una sezione che si occupi esclusivamente di questo. Ferrero dice sì; e da quel sì nasce l'AutoreInvisibile, il ciclo di incontri professionali sulla traduzione del Salone del Libro che quest'anno festeggia il suo primo quarto di secolo (alla guida sempre Ilide Carmignani).



Ad aprire l’incontro inaugurale di questa nuova edizione sono state quattro traduttrici – Susanna Basso, Sara Cavarero, Carla Palmieri e Cristina Vezzaro. La prima a prendere la parola è proprio Basso, da anni voce italiana di Ian McEwan. Avrebbe sicuramente tante cose da raccontare, e qualcuna, molto divertente, in effetti ne racconterà: come la volta che l'autrice britannica Naomi Alderman durante un laboratorio di traduzione per gioco infarcì il testo da sottoporre alle partecipanti di "intraducibili" – solo per constatare con sgomento che il gruppo, senza neanche arrivare alle sue formule più diaboliche, si era arenato in crisi alla prima parola, "you" (va' a spiegare a un anglofono l'obbligo di sciogliere genere e numero in italiano...). Ora però Basso è qui nelle vesti di moderatrice, per accompagnare le colleghe nel racconto del loro "cammino della traduzione".

Per Sara Cavarero – che traduce dallo spagnolo (tra i "suoi" autori il giornalista argentino Martín Caparrós), dal portoghese e dal catalano – l'esperienza reale contraddice clamorosamente l'adagio sulla solitudine del traduttore. Torinese di madre spagnola, per lei tradurre è stata l'occasione per rinsaldare il legame con la lingua materna, e d'altronde è difficile sentirsi soli nella pluralità quasi "schizofrenica" di voci mentali che chi cerca di rendere nella propria lingua un testo pensato in un'altra deve evocare in sé ogni volta. È bello, dice anche Cavarero, sentire che c'è sempre qualcosa di nuovo da imparare: che sia scoprire a trent'anni cos'è un derby traducendo un libro su Messi e Maradona o capire che degli scrittori fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio (Caparrós cita, in un suo testo, un autore introvabile: a infinite ricerche segue una telefonata contrita al giornalista – non lo conosco, è colpa mia, ma chi è? – che in tutta risposta esclama serafico: "Ah, ma quello l'ho inventato").



Cristina Vezzaro, invece, in origine aveva un rapporto complicato con la sua principale lingua di lavoro, il tedesco. Sembra impossibile, a giudicare dall’abilità con cui si districa tra le voci più varie del panorama germanofono (Antje Rávik Strubel e Ulrike Draesner, tra le altre), ma è così: da bolzanina, se l’è visto "cadere addosso" a tre anni, spiega, con l'inizio della scuola. Ma, anche se lo studio la appassionava a tal punto da chiedere lezioni supplementari di grammatica ai suoi genitori ("una cosa da matta"), non riusciva a sviluppare un legame emotivo con la lingua: la padroneggiava alla perfezione ma era molto più attaccata al francese dei suoi studi universitari a Ginevra. Dice di aver risolto la frattura quando il tedesco è diventato la lingua degli affetti, ma anche cominciando a tradurre scrittrici sudtirolesi, sue sorelle e specchi nel bilinguismo.



Carla Palmieri, specializzata in inglese, partita dalla saggistica per poi approdare alla narrativa (ha tradotto Fiona Barton, Matt Haig, Pat Barker), sostiene di non saper parlare molto del suo lavoro: è troppo immersa per riuscire a prendere la distanza necessaria. Sceglie quindi di raccontare uno degli ultimi libri che ha tradotto, 'Come costruire una barca' (Einaudi, 2024), dell’irlandese Elaine Feeney: protagonista è un tredicenne con molte difficoltà sociali, il cui destino si intreccia con quello di due insegnanti che cercheranno di aiutarlo. La proposta di uno dei due di costruire insieme una barca inizierà a creare una comunità intorno al ragazzino.

L’operazione risuona, secondo Palmieri, un po’ con la traduzione: si è sì soli, ma consapevoli di essere immersi in una collettività. Che in giornate così può farsi visibile, e arricchire chi la saprà ascoltare con la varietà delle sue esperienze e delle sue voci.

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