Se dovessi definire L’Aquila, direi "resistente alle avversità climatiche e naturali, come la sua gente". Non a caso il motto “Immota manet”, che campeggia sullo stemma cittadino, tratto forse da un verso di Virgilio, si riferisce alla capacità della quercia di radicarsi, ferma e salda, come la città alle sue montagne.
Per chi non la conosce, basta nominare il Gran Sasso. Un po’ come la vecchia pubblicità del confetto Falqui di Tino Scotti a Carosello: basta la parola! Ma non c’è solo sua maestà il Corno Grande. Ancora più vicino, a un pugno di chilometri, svetta una collina dall’aspetto singolare: un versante completamente brullo e l’altro ricoperto di pini e abeti. È Monteluco (1.000 mt), nella frazione di Roio, visibile da ogni punto della città.

Si raggiunge dalla stazione ferroviaria, costeggiando le antiche mura aquilane all’altezza delle 99 cannelle. Subito dopo aver attraversato il passaggio a livello e il fiume Aterno, la strada regionale 615 inizia a salire abbracciando la collina. Si costeggia un’ampia conca, probabile fondo di un lago preistorico provocato dal movimento di un piccolo ghiacciaio proveniente dal monte Ocre. Tutt’intorno quattro agglomerati: Roio Piano, Santa Rufina, Colle di Roio e Poggio di Roio. Nei tempi passati erano un Comune a sé, uno dei 99 castelli che contribuirono a formare la città. Il Santuario della Madonna di Roio, la Pineta, lo Chalet e la Rotonda sono i luoghi simbolo di Monteluco; il salotto verde negli anni ’60. Un luogo di non poco conto per bellezza e rilevanza storica.


Nel ricordo collettivo locale, la pineta era meta di uscite domenicali di famiglie intere per pic-nic in compagnia. Di quegli anni, la maggior parte degli aquilani conserva foto di gruppo con genitori, amici, zii e cugini all’ombra degli alberi; un posto cui mi lega la provenienza materna.
In alternativa alla strada, si può arrivare a Poggio di Roio dall’antica mulattiera che da borgo Rivera sale per tre chilometri: la Via Mariana. Una stradina bianca che dal ponte sull’Aterno sale ripida per la collina e si arresta al piazzale della chiesa. Il sentiero non ha bisogno di presentazioni. Nel ‘42 l’arcivescovo dell’Aquila Carlo Confalonieri lo trasformò in un itinerario di devozione; doveva favorire il pellegrinaggio al Santuario.

La celebrazione della Madonna della Croce fa parte del biennio sacro indetto dall’Arcivescovo Confalonieri, suggerito da ricorrenze centenarie ma soprattutto dal momento storico che si viveva in quegli gli anni. La guerra infuriava in tutte le nazioni e le celebrazioni erano funzionali a mitigare gli animi e l’esplosione di fazioni politiche.

Il culto della Madonna di Roio è legato alla pastorizia. L’artistica e miracolosa statua, trasportata a dorso di mulo dai pastori lungo il tratturo dalla Puglia in Abruzzo (1578), è sempre stata meta di pellegrinaggi e fonte di devozione. I pellegrinaggi erano mensili e si svolgevano percorrendo la mulattiera fino al piazzale del Santuario. Nel ‘61, sempre per volontà di Confalonieri, ormai cardinale, vennero poste le quindici edicole sacre, in pietra, della Via Crucis. Oggi la Via Mariana ha perso il fascino dello storico cammino; è stata asfaltata e le edicole sono state rimodernate.


La pineta e le sue strutture sono in abbandono da anni, una situazione aggravata dal sisma del 2009 e dall’incendio del 6 agosto 2012 che ha fatto temere per la sorte della pineta medesima. È chiuso lo Chalet e la storica Rotonda, e è chiusa la casina di Monteluco, inaugurata il 28 ottobre del 1934 e gestita la prima volta dal 1934 al 1936. Fu dotata di apparecchio telefonico, dopo trattative con la società Timo per le opere di allaccio e attivazione. Il trasporto dell’energia elettrica fu realizzato dal trasformatore di Roio Piano, e fu fatto uno studio per la derivazione di acqua potabile. Scalini in granito, maioliche bianche, marmo bianco di Carrara e lastre di vetro furono i materiali usati per le finiture. D’intesa con l’ufficio forestale, furono abbattuti i pini che vegetavano intorno alla casina comunale.

Un vuoto nella documentazione negli archivi storici impedisce di ricostruire il susseguirsi delle gestioni della casina (risulta accatastata come teatro) fino agli anni Settanta, quando divenne la prima discoteca all’aperto dell’Aquila. In quegli anni era stato affiancato uno Chalet adibito a ristorante. Qui si svolgeva il lunedì di Pasqua degli aquilani; si sostava al Santuario della Madonna di Roio e poi si saliva in pineta per consumare il pranzo al sacco o, chi poteva, per pranzare al ristorante. Dagli anni ’80 la gestione delle due strutture è stata ripresa, ma fino al 2009. Quest’anno, a 15 anni dal sisma, sono stati previsti interventi con i fondi che derivano da una delibera CIPE del 2020.
Scendendo lungo una stradina in mezzo alle conifere si trova una peschiera in pietra, una volta perfettamente funzionante, e la vecchia gabbia del lupo, per fortuna in disuso da decenni. Oggi nella peschiera sono cresciuti due pini.


Un’atmosfera di degrado ha cancellato la storia di questa località montana, poco distante dal centro di L’Aquila.


Negli anni a seguire, tra gli alberi sono comparse delle antenne, che hanno occupato un enorme spazio sul cocuzzolo del colle, la cui concessione resta una questione complessa. È stata a lungo fonte di preoccupazioni e polemiche ambientali. Ancora oggi all’ingresso della pineta un cartello consiglia, a chi si avvicina, di restare nella zona al massimo per 4 ore. Il riferimento è all’inquinamento elettromagnetico. Non è dato sapere chi abbia installato il cartello; né il Comune né l’Università sanno nulla.

Oggi, come 90 anni fa, non è cambiato nulla per la pineta di Monteluco: si ragiona sempre sul potenziale turistico ed economico dell'area. L'abbandono in cui versa l’intera area fa emergere un passato che sembra lontanissimo.

Originariamente il colle era privo di qualsiasi pianta, coperto da un manto erboso a uso pascolo. Il rimboschimento di Monteluco risale al 1884; aveva lo scopo di tutelare da frane la strada e la ferrovia Aquila - Terni nella vallata sottostante. Furono piantati il Pino Laricio e il Pino d’Austria nella parte più alta e, in basso, il Pino d’Aleppo. Già dall’inizio del ‘900 le piccole piantine avevano dato vita al bosco. Il legname veniva originariamente tagliato e distribuito alla gente locale. (Rojo Historia, Fulgenzio Ciccozzi, REA ed.)

A 600 metri dalla Pineta c’è un bivio con un cartello che indica la Facoltà di Ingegneria.

Nacque nel 1966 su un sito che ospitava un’altra costruzione edificata alle soglie degli anni ’30. In quegli anni, per la prima volta, si presentò all’amministrazione del Comune di Aquila degli Abruzzi la necessità di migliorare la viabilità e di sfruttare l’aria salubre della frazione di Roio. L’intento era quello di creare un quartiere residenziale e turistico. Rientrava nel progetto Grande Aquila voluto dal gruppo dirigente fascista locale e in particolare dall’avvocato aquilano Adelchi Serena (1895–1970), gerarca e podestà della città dal 1926 al 1934, nonché Ministro dei Lavori Pubblici (1939/40). "La grandiosa Colonia Montana 9 Maggio, per i figli dei marittimi, sorta a 990 metri sul mare a Pineta di Roio, incantevole angolo verde nella conca formata dal Gran Sasso e dalla Majella...", così inizia il documento video dell'Archivio Storico Luce (4 agosto 1937) sulla cerimonia che vide la partecipazione di circa 500 bambini, figli di marittimi, provenienti da tutta Italia.
La Colonia Montana, voluta dall’Ente Assistenza Gente del Mare, ospitava bambini in due sezioni distinte, maschile e femminile.


Fu progettata dall’architetto Ettore Rossi in un unico corpo di fabbrica (scelta consueta in quegli anni), nonostante non mancassero ampi spazi pianeggianti, e inaugurata il 27 luglio 1937. “Sul piano costruttivo la struttura portante è in cemento armato di tipo antisismico… Ci si trova di fronte a una costruzione sana, bene ordinata, arredata con senso pratico e con materiali solidi e duraturi.” (Giuseppe Pagano, Una colonia montana, “Casa bella”116, 1937)


L’opera doveva costare in tutto 379mila lire circa, considerando una serie di lavori eseguiti in economia, sfruttando la manodopera gratuita e volontaria degli abitanti di Roio. Adelchi Serena autorizzò l’opera con una delibera del 1931. I terreni furono espropriati alla famiglia di Ferdinando Palitti e il delegato podestarile Teodoro Totani si occupò dello sbancamento del terreno. Con una lettera del 14 giugno 1929, lo stesso Totani chiese al podestà di valorizzare la zona della pineta, con la costruzione della strada, il compimento del progetto di uno chalet, di impianti di luce e acqua e di villini per “formare così una villa quanto mai ridente e salùbre alle porte della città”.
Il cambio di destinazione da colonia a università comportò inevitabili modifiche che hanno alterato gli equilibri d’origine tra massa edificata e contesto.

Lo scopo del progetto Grande Aquila era quello di evitare che la città diventasse un paesotto e di contrastare la città di Pescara, dopo il regio decreto (2/01/1927) sul riordino delle circoscrizioni provinciali. Con la creazione della nuova provincia, due comuni, Popoli e Bussi, furono sottratti a L’Aquila. Lo stesso avvenne per i comuni di Amatrice, Leonessa, Posta, Borbona, Antrodoco e Borgo Velino, che andarono alla provincia di Rieti. A L’Aquila rimasero Sulmona e Avezzano e l’annessione di altre frazioni come Paganica, Arischia, Assergi, Roio e Bagno. Con un successivo decreto (29/7/1927 con effetti dal primo gennaio del 1928) Aquila cambiò nome in L’Aquila.

Oggi, a pochi giorni dall’approvazione da parte del consiglio regionale della legge per la fusione dei comuni di Pescara, Montesilvano e Spoltore con attuazione nel 2027, a 100 anni dalla nascita di Pescara, sarebbe utile un ripensamento sull’idea della città de L’Aquila.
Occorre recuperare il collegamento con quei borghi del “contado” che fino all’inizio del ‘500, prima della spartizione del territorio a favore dei Baroni spagnoli, aveva determinato la ricchezza della città.