Era l’agosto del 1988 quando realizzai il sogno di un viaggio ‘on the road negli States’. L’equipaggio: mia sorella Anna e io. Non come Jack Kerouac, né come Thelma&Louise, il film non era ancora uscito. Le nostre motivazioni erano differenti e il viaggio ebbe un lieto fine. All’organizzazione del nostro ‘film’ pensò mia sorella, gli appunti per la sceneggiatura li presi io e gli imprevisti vennero da soli.
Il percorso scelto fu New York - San Diego. Dalla costa Est alla California. Per me era indifferente, l’importante era andare. L’unica opzione che mi fu prospettata, una volta laggiù, fu: San Francisco o un’arrampicata sulle Montagne Rocciose. L’esitazione ci fu, ma non durò molto, chi mi conosce può intuire la scelta. La meta principale fu il Grand Canyon, che avevamo programmato di attraversare a piedi.
Percorremmo più di 5.000 chilometri attraversando 10 Stati. Decisi di acquistare un magnete per ogni Stato, a futura memoria. Oggi riposano - naturalmente - sullo sportello del frigorifero.

Una media di 6 ore di auto al giorno, alla velocità di 80 all’ora, quasi avvilente per noi europei. L’unico conforto era la sensazione di libertà sotto il big sky, a 180° per l'assenza di orizzonte. I protagonisti erano due: la natura e la strada. Verso sud incontravamo cartelloni pubblicitari con il numero di cellulare di Gesù, per poter essere salvati. Non scrissi il numero e non fotografai il cartellone, il ‘capitano’ non ammetteva soste. Avrei dovuto farlo.
E infatti l’auto, una Volkswagen Rabbit usata, pace all’anima sua, ci abbandonò nelle vicinanze di Grants, nelle aree desertiche delle riserve indiane del New Mexico. Erano le 10,30 del mattino e un cartello autostradale indicava l’uscita per Milan. Non sapevo se ridere o piangere; avevamo già superato Paris (Texas), Florence, Verona, Carthago…

Si fermarono due poliziotti della stradale che chiamarono i soccorsi, l’AAA o triple A (American Automobile Association), l’equivalente del nostro soccorso ACI. Ma non furono i soli a fermarsi. Il primo fu un tizio che rimorchiava auto e che voleva rimorchiare anche noi. Subito dopo si affacciò un camion con due afro-americani, di cui uno si dichiarava meccanico specializzato Volkswagen ma non sapeva neanche dove fosse l’asticella dell’olio. Fra gli uni e gli altri, una specie di assemblea in mezzo al deserto.

Arrivammo nell’officina meccanica di tale Frank, associato per l'appunto all’AAA. Si prospettava una lunga attesa, ma noi eravamo di fretta, dovevamo arrivare al Canyon dove avevamo prenotato la discesa. Tra tentativi di riparazione costosi e forse inutili, la vendemmo a 150$ a un mormone collezionista di Volkswagen. Arrivammo poi a Flagstaff alle 4 del mattino. Avevamo dormito in autobus e dovevamo attendere altre quattro ore per il mezzo successivo e almeno mezz’ora per l’apertura del primo locale, per fare colazione. Ricordo di aver dormito ovunque: seduta sullo zaino, sdraiata su una panchina e anche per terra. Rispettammo comunque i piani: arrivammo in tempo sul South Rim, il bordo meridionale del Gran Canyon.

L’affaccio è impressionante: un precipizio di rocce rosse stratificate, desertiche, non se ne vede il fondo. Sapevamo che la base del canyon era a 1500 metri di profondità e potevamo solo immaginare il lato opposto, a 20 chilometri di distanza. Era mezzogiorno e ci trovavamo a 2.000 metri circa di altitudine; c’erano 30 gradi e un sole accecante. Facemmo rifornimento di cibo, lasciammo i bagagli e, mandati a mente i consigli dei ranger, imboccammo il sentiero, il Bright Angel Trail: 15 chilometri di discesa ripida esposta sul vuoto sottostante verso il fondo del canyon. Altri scendevano a dorso di mulo e i muli hanno la precedenza sul sentiero.

La temperatura saliva, fin verso i 40, a mano a mano che si procedeva. Alcuni si fermavano per una crisi di panico, o per disidratazione. I ranger scendevano rapidamente muniti di radio, per prestare soccorso e conforto. Noi ci fermammo una sola volta, a un terzo dal percorso, in un’oasi dove c’erano alberi, panche di legno per sedersi, tavoli e soprattutto acqua: Indian Garden. Dopo aver ripreso fiato, mi guardai intorno e vidi gli effetti che produceva il Canyon. Le persone arrivavano all’oasi stravolte e usavano panche e tavoli per sdraiarsi. Sembrava un obitorio. Alcuni erano talmente sconvolti da sdraiarsi al sole.

Notai che tutti gli escursionisti erano in pantaloncini e T-shirt. Noi avevamo seguito i suggerimenti dei ranger. Indossavamo pantaloni lunghi e maglia a maniche lunghe. A Indian Garden passa un ruscello, l’Indian Creeck, nel quale ci sdraiammo completamente fino a bagnare anche le scarpe. Si limitavano i rischi di disidratazione, ci si asciugava camminando.

Verso sera sperammo in un abbassamento della temperatura. Neanche per idea, alle 20 il sole non c’era più, ma 43 gradi sì. Arrivate al fondo del Canyon ci affacciammo sul Colorado: fiume rapido, minaccioso, e rossastro come le rocce. Percorremmo con una certa apprensione in fila indiana il Silver Bridge, il ponte sospeso che permette di attraversare il corso d'acqua: al di là si trova Phantom Ranch, un rifugio dell’inizio del secolo scorso, l’unico posto dove fosse possibile dormire in fondo al Canyon.

Ci sistemammo nel dormitorio femminile con una comitiva di tedesche. C’erano letti a castello, la doccia e l’aria condizionata, un vero paradiso. Andammo subito a dormire, esauste, sapendo che avremmo avuto la sveglia alle 4.30 del mattino e il primo turno di colazione alle 5. Non c’era tempo da perdere, occorreva partire prima dell'alba per arrivare in cima prima che facesse troppo caldo. Il sentiero del ritorno era un’impennata di 15 chilometri in salita.
Al mattino, prima di uscire dall’ostello, Anna infilò una maglia pensando all’escursione termica, dato che era ancora notte. La vidi rientrare immediatamente, fuori c’erano ancora 40 gradi. Dopo un’abbuffata di pancakes e litri di caffè, iniziò una gara senza esclusione di colpi tra i partecipanti al primo turno di colazione, una gara a chi arrivava prima su. C’erano un gruppo di tedeschi e sei americani, due coppie e un dentista di New York con figlio al seguito. All'inizio era ancora buio e giovani pipistrelli volavano intorno.

Decidemmo di camminare molto piano mantenendo il passo di montagna, Gran Sasso docet. Una coppia ci sorpassò con una certa velocità salutandoci sarcasticamente. A seguire, il dentista newyorkese che si trascinava dietro il figlio riluttante. Gli allunghi veloci in salita e a 40 gradi spezzano gambe e fiato e infatti furono costretti a fermarsi spesso. Li sorpassammo ad ogni loro sosta, secondo la vecchia legge della montagna, provocando una pessima reazione e alimentando la competizione. Il gioco andò avanti a tal punto che le coppie si divisero. Le mogli in bikini cedettero e si fermarono. I mariti fraternizzarono e andarono avanti, ma furono costretti a fermarsi ancora, perché era faticoso correre in quelle condizioni.
Continuammo a sorpassarli a passo lento, fermandoci ogni tanto a sdraiarci nel ruscello. Alla fine non ci salutarono più. Negli ultimi 5 chilometri dalla fine, il South Rim era una barriera di roccia verticale altissima che sembrava non finire mai. Immerse in un bagno di sudore, salimmo lentamente sul sentiero che sembrava sfidare le leggi sulla gravità.

Alle 10,30 eravamo su. Avevamo una gran sete, ma il viso era tranquillo e il respiro regolare, al contrario di quelli che arrivarono molto dopo, con la faccia paonazza e il respiro corto. Andammo a sederci all’ombra per riposarci un po' e mangiare qualcosa. La stanchezza cominciava a farsi sentire. Ci aspettava un lungo viaggio in autobus per San Diego. A sera arrivammo a destinazione… ma non le valige. I nostri bagagli erano stati spediti a Los Angeles. Eravamo tornate nella civiltà.
Non c’è nulla che possa preparare al Gran Canyon. Le parole non renderanno mai appieno l’esperienza vissuta. Resta una profonda felicità per la condivisione di un’avventura unica, non facile da ripetere. Il coast-to-coast è un viaggio intimo e la compagnia deve essere giusta. Ne è valsa la pena.