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“Ogni oggetto, ogni segno di vita è ancora qui e continua a parlarci”.
È questo il senso più profondo della mostra “Ancora qui_Prologo. L’Albergo dei Poveri e la memoria delle cose” che, inaugurata pochi giorni fa, costituisce sia il momento finale delle celebrazioni per i 2500 anni di Napoli sia l’inizio della restituzione dell’immensa struttura alla città.
Ma andiamo con ordine.
L’Albergo dei Poveri, un edificio dai numeri impressionanti, fu voluto da Carlo di Borbone e da sua moglie Maria Amalia di Sassonia nel 1751 come rifugio per gli indigenti del Regno e pensato da Ferdinando Fuga come il più grande edificio d’Europa. Doveva essere un luogo di accoglienza e riscatto, non di reclusione, dove re e regine, religiosi e architetti proiettarono l’utopia di una città che potesse redimere la propria miseria attraverso il lavoro e l’istruzione.
Il primo catalizzatore di questo progetto fu il domenicano Gregorio Maria Rocco, che dall’apertura del RAP e per i successivi trent’anni fino alla morte spese tutte le sue energie per assicurare il flusso delle donazioni e accogliere gli ultimi: orfani, figli illegittimi, malati mentali, abbandonati, figli di condannati, anziani.
Uomini, donne e soprattutto bambini e bambine per i quali nel corso del tempo furono attivati la scuola di giardinaggio, la sartoria e i laboratori di tessitura (dal 1773), le scuole di calligrafia e ornato (dal 1802), la stamperia, le scuole elementari e di musica e il riformatorio per i minorenni (dal 1827), le scuole professionali e i laboratori per falegnameria e carta da parati (dal 1908).
Poi, nel 1940 vennero soppresse le scuole-officina e gli allievi affidati a singoli artigiani. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino al terremoto del 1980, l’Albergo dei Poveri cambiò destinazione d’uso ospitando la caserma dei Vigili del Fuoco, il Tribunale dei Minorenni, l’Archivio di Stato, le scuole pubbliche, l’Università Federico II, asili per anziani, uffici comunali e la storica palestra Kodokan che attualmente conta 1200 allievi.
Infine il RAP passa alla gestione del comune (1977), viene chiuso per inagibilità (1980), viene inserito nella lista Unesco Patrimonio dell’Umanità (1995). Seguono i primi progetti di restauro (1999), il parziale restauro del primo livello (2005), l’inizio degli attuali lavori (2023).
Se questa cronologia restituisce un po’ dell’intensità della storia dell’Albergo dei Poveri, molto di più potrà fare la visita della mostra, che presenta nel grandioso Refettorio posto al primo piano una parte delle cose e degli oggetti che passarono tra le mani delle persone che per un periodo breve o lungo della loro vita qui vissero, impararono un mestiere, lavorarono. Sono scarpe di adulti e bambini, sono piatti, bicchieri, caffettiere, posate, letti, valigie, macchine da scrivere, ma anche preziosi documenti dell’esercito e altri reperti d’epoca.
Oggetti che testimoniano la vitalità della “fabrica del saper fare” e che in dialogo con le installazioni che le accompagnano raccontano un pezzo di storia della città, dando la sensazione che queste mura parlino.
Le transenne che delimitano il corridoio che introduce al Refettorio sono tappezzate di fogli e documenti d’epoca e gli spazi del Refettorio stesso sono riempiti di parole, risate e filastrocche di bambini: voci conservate negli archivi sonori della prima metà del Novecento con cui il musicista e performer Massimo Cordovani ha realizzato una colonna sonora originale.
Nelle fotografie di Luciano Romano troviamo le ciotole di metallo ossidato che hanno distribuito il cibo, le scarpe sedimentate di polvere e pioggia, le carte alla rinfusa che documentano la complessa organizzazione del sito, uniche tracce tangibili della vita che si svolgeva tra queste mura.
Per immaginarla, un racconto originale di Viola Ardone stampato su un grande cartellone, “Eravamo bambini”.
La lunga teoria di oggetti accostati ai muri o accumulati in ordinati quadrati sono le tracce materiali di un’umanità che il percorso espositivo rilegge in chiave poetica e civile, sempre ricordando che dal 1781 quelle bambine e quei bambini impararono mestieri e furono educati "al fare", uscendo da questo luogo formati per essere calzolai, bandisti, scrivani, sarte, intagliatrici, ricamatrici e molto altro ancora.
Ispirate a questi spazi e ai loro oggetti sono anche l’opera di Norma Jeane che ha scelto di lavorare con la polvere, intesa come residuo minimo e universale della presenza umana, per raccontare la memoria del luogo nella sua opera Napoli 2025,
e le sculture di Antonella Romano, piccole scarpe realizzate intrecciando fili di ferro lavorati a mano.
Una gigantografia di Mimmo Jodice, Opera nr. 16, posta alla fine del Refettorio, completa il percorso espositivo. Fa parte del libro del 1999 edito da Federico Motta, Real Albergo dei Poveri, Napoli, in cui Jodice rappresentò il luogo com’era fotografando cortili desolati, mura cadenti, brandelli di tende e resti di mobili e archivi calpestati. L’opera è stata data in dono al progetto di recupero del RAP dallo stesso artista poco prima della sua scomparsa.
Questa apertura straordinaria che consente al pubblico per la prima volta l’accesso al Refettorio monumentale mentre i lavori sono ancora in corso, accende davvero la speranza che “il gigante di via Foria” (quattrocento finestre solo sulla facciata principale), incompiuto rispetto al suo originario e megalomane progetto e abbandonato al degrado negli anni più recenti, torni nella fruizione della cittadinanza e degli enti che vi avranno sede.
Sarebbe il miglior modo per onorare la memoria di quelli che lo hanno abitato.
Info:
aperto fino al 2 marzo 2026 dal martedì al sabato dalle 10 alle 18
aperture straordinarie le prime domeniche del mese e nel periodo festivo
ingresso gratuito
Tina Pane