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È capitato per caso, come spesso accade. Il vino, il lavoro e l’amicizia mi hanno portata qualche giorno nel Vulture, Basilicata potentina, per la prima volta nella mia, non brevissima, vita. E come in ogni viaggio o weekend lungo che si ricorda ho toccato con mano un pezzo d’Italia autentica, originale, poco chiassosa ma con un enorme voglia di crescere e di farsi conoscere. È stato camminando tra i vigneti gonfi di grappoli d’aglianico, impugnando (ma solo per poco) le tronchesi della prima vendemmia, accanto agli uomini chini sui filari con le ceste posate ai piedi, che ho sentito il profumo della terra di Orazio, ovvero il poeta Quinto Orazio Flacco di Venosa che qui nacque poco meno di duemila anni fa (65 a.C. - 8 a. C.).
La vendemmia è appena cominciata ma “sarà un’ottima annata”, almeno è ciò che mi assicurano quelli che la vigna la coltivano da sempre. E, da viaggiatrice urbana, mai lo metterei in dubbio. Ultimamente sono spesso in giro. La curiosità mi spinge nell’andare. Ma ci è voluta una cantina per condurmi qui: la Cantina di Venosa. Una sorpresa nella sorpresa. Tanto per chiarire, senza intenti di marketing, dopo l’abbondante induzione culturale sul “Mezzogiorno d’Italia depresso e con poche risorse”, mi sono trovata davanti un terroir da raccontare ed (eventualmente) reclamare ad esempio.
Trecentocinquanta soci-vignaioli-produttori, medi, piccoli, più spesso piccolissimi, che conferiscono il 90 per cento di uve aglianico, il 5 per cento di moscato, qualche quintale di malvasia, qualcosa di greco a una Cantina che dagli anni Ottanta in poi - con un picco trasformativo quindici anni fa - ha saputo reinventarsi. Eh sì, perché qui nonostante le migliaia di ettari di filari che segnano da un secolo il panorama, si produceva soltanto “vino da taglio”: aglianico affogato nei grandi rossi del Nord. Salvo qualche rara eccezione. Volontà e impegno (ecologia e biologico a braccetto) hanno rivoluzionato prima la mentalità agricola e poi il business. E il post pandemia ha dato la sterzata ai progetti di enoturismo e alla valorizzazione del territorio.
Complice il Pnrr, il futuro si presenta roseo come il tramonto ai piedi del vulcano spento che offre sapidità ai piccoli acini del pregiato aglianico. E i dati confermano: con ottocento ettari di filari, il fatturato (8 milioni di euro) ha registrato un + 11% e i 2 milioni di bottiglie che escono oggi dalla Cantina sono destinati ad aumentare, forse raddoppiare. Come raddoppierà - di qui al 2027 - la superficie e la tecnologia della cantina, pronta ad aprirsi all’accoglienza enoturistica, all’energia fotovoltaica (250 Kw prodotti dai pannelli), all’ampliamento occupazionale e a fare un salto nella agognata sostenibilità, grazie anche alle coperture dei tetti in erba.
direttore commerciale, presidente e enologo della Cantina di Venosa)
Un successo per i soci (guidati dal presidente Francesco Perillo e dal direttore commerciale Antonio Teora), ma soprattutto per chi in Basilicata vive e lavora. Perché è anche grazie al “rosso rubino intenso”, al profumo delicato di frutti neri maturi, “al sapore inconfondibile, sapido e armonico” dei calici di Matematico e del Carato Venusio (tanto per fare un paio di nomi di etichette di pregio) esportato in Germania o negli Usa che la romana Venusia è viva, prospera e seduttiva. Sì, volevo proprio scrivere seduttiva: per paesaggi e offerta archeologica, per fonti d’acqua minerale, per buon cibo e clima mite, per i morbidi rosè, per storia e natura selvaggia, eppure abbastanza snobbata turisticamente.
O meglio: qui arrivano circa 60mila turisti l’anno (che non sono bazzecole), per lo più dalle regioni vicine (Bari si trova a 120 chilometri, Foggia solo a 80) ma si fermano poco. E lasciano fragili impronte economiche. È l’effetto “toccata-e-fuga”, si lamentano i ristoratori. Perché? Qui non c’è mare, né discoteca né movida ampezzana. E l’ospitalità non regala il lusso a cinque stelle. Trionfa, viceversa, il peperone crusco, conquistano il palato un pane di grano duro che ha la fragranza di una volta, pomodori odorosi e dolcetti alla cannella (i pizzicannella) ruvidi come la nudità di un paesaggio in cui dovunque ti giri c’è sua maestà il Monte Vulture - poco più di 1300 metri d’altezza e un profilo dalle cime “smussate” - ad osservarti guardingo, circondato di vegetazione rigogliosa.
Da Melfi a Ripacandida, da Barile a Ginestra a Rionero. Fertilità delle radici che si sviluppano nelle rocce vulcaniche fin dal lontanissimo Pleistocene. L’hanno trovato fosco e nero, proprio come appare a me in questi giorni d’autunno, anche i Romani che - muovendosi lungo quella che sarebbe diventata nel 190 a.C. la via Appia - hanno iniettato disgrazie e fortune da queste parti, strappando il sito ai Sanniti e facendone una colonia abitata da oltre 20mila uomini, oggi i residenti sono nemmeno 10mila. E pensare che nell’ 89 a.C. ricevette il titolo di municipium (città romana), ottenendo in aggiunta il diritto di voto per i suoi abitanti.
Tra le fortune romane giunte a noi (e parzialmente visibili) vanno annoverati l’anfiteatro ellittico dove si sollazzavano con i giochi crudeli di gladiatori, appena fuori dal borgo (iscritto tra i Borghi più belli d’Italia), nonché l’impianto di ricche domus e terme ancora bisognoso di scavi per mostrare tutta la sua vastità. Il parco archeologico, insomma, merita davvero attenzione. Organizzandosi per tempo è possibile prenotare una visita guidata e immergersi tra le rovine romane che hanno resistito al terribile terremoto del 1930 che colpì rovinosamente pure l’Irpinia, esattamente come era accaduto un secolo prima.
Venusia - forse città dedicata a Venere, forse chiamata così per l’abbondanza delle vene di acque minerali o di vino (vinosa) della zona oppure perché sempre afflitta dal vento (ventosa) si trovava un tempo in una posizione strategica, lungo la consolare che collegava Roma a Brindisi, e con ciò guadagnò una solidità immensa anche nei commerci. Le disgrazie (ahimè) arrivarono però nel 114 d.C. con la costruzione della via Traina (che univa Benevento a Brindisi e, dunque, al mare) e più tardi con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, Eruli ed Ostrogoti.
Nei secoli tutto è cambiato, di “barbari” se ne intravedono meno di quanto quotidianamente accada a Roma, Milano o Napoli e nella stragrande maggioranza delle metropoli europee, ma il vino ha un passato remoto che il borgo non dimentica, a giudicare dai prossimi investimenti. Pare fosse gradita bevanda monastica nel Medioevo benedettino che a Venosa ha abbandonato un’opera monumentale: il Complesso della Santissima Trinità tra cui brilla l’Incompiuta, un’abbazia a cielo aperto di struggente bellezza. Cerco di spiegare tornando con gli “occhi della mente” in Lucania. Accanto al parco archeologico, di cui vi dicevo qualche riga fa, è collocato su un lungo asse orizzontale un enorme edificio in pietra bianca locale (battezzata venusina), il complesso della santissima Trinità, che si articola in due grosse aree: la Chiesa Vecchia e l’Incompiuta.
Cominciamo con il dire che la più antica delle due è appunto la Chiesa Vecchia, edificata nel V-VI secolo sui resti di un tempio pagano, probabilmente romano. Piccola dimostrazione di paganesimo: la presenza di una colonna all’ingresso che sembra fosse dedicata a Venere e che offrisse vita feconda alle novelle spose che le giravano attorno. Il nucleo paleocristiano - con la navata centrale e l'abside posta sul fondo - si è via via arricchito di testimonianze normanne e longobarde, affreschi, dettagli d’arte e ha subito mutazioni già dal VII secolo (c’è anche una cripta sotto l’altare). Ma ciò che rende magica questa Santissima Trinità è la strana vicenda benedettina che ne ha mutato la sorte e, ovviamente, la configurazione materiale.
I monaci a metà del 1100 decisero che la Chiesa Vecchia in loro possesso non era più bastevole per i fedeli e vollero ampliarla “aggiungendo” una magnificente Chiesa Nuova con il monastero alla pianta originale. Il progetto fu avviato: si cominciò a costruire con il materiale delle terme romane, colonne e pietre e incisioni sottratte agli antichi insediamenti. In corso d’opera però i Benedettini caddero in disgrazia, persero il denaro e nel 1297 il monastero fu soppresso da papa Bonifacio VIII che assegnò il Complesso ai Cavalieri di Malta, reduci dall’Ultima Crociata e assolutamente disinteressati a finire l’opera. Le trionfanti colonne, le volte e le mura perimetrali dell’Incompiuta rimangono oggi la testimonianza medievale di una gloria polverizzata per interesse papale.
E l’incompletezza della chiesa dona al paesaggio un che di misterioso, definitivo: assai di più di quanto sarebbe stato altrimenti. Impossibile non restarne incantati. C’è qualcosa che ricorda San Galgano (la conoscete?) e un’atmosfera che richiama invenzioni letterarie alla Ken Follett de “I pilastri della terra”. La fascinazione dell’incomprensibile da “sciogliere” con un buon bicchiere di aglianico. E magari con una gita ai laghi di Monticchio, due magnifici specchi d’acqua dai colori diversi, circondati dal bosco, nati nelle bocche crateriche del vulcano spento, sua maestà il Vulture. Siamo al centro di un parco regionale tutto da esplorare. Basta mettersi in cammino.