Qualche dubbio sulle date mi aveva più che sfiorato. Peccato che i dubbi mi vengano dopo che il dado delle prenotazioni dei voli è stato tratto. "Burning season" mi risonava nel cervello come una spada di Damocle.
Vero che avevo controllato. "Tranquilla- mi ero ripetuta - i contadini iniziano a bruciare i campi per prepararli al nuovo raccolto, solo a fine Febbraio. Quindi ci stiamo dentro, visto che ripartiamo il tredici ".
Però sapete come sono i Social, sembrano fatti apposta per mettere ansia: le informazioni sul "quando" l'aria incominciasse a diventare irrespirabile, per alcuni, era addirittura Dicembre.
Dai, cercavo di tranquillizzarmi, saranno mica così scemi da mettere nel calendario di Febbraio il Chiang Mai Flower Festival, un evento di tre giorni che va avanti da quarant'anni e che quest'anno è nei primi giorni di febbraio, proprio per intossicare i turisti? Di tutti questi tormenti interiori il beneamato era ovviamente all'oscuro, e facevo del mio meglio per mantenerlo tale; è un tipo sensibile, con l'inquinamento gli viene il raspino in gola. Comunque, toccando legno, dopo una settimana, delle paventate polveri che possono essere anche mica tanto sottili, nessuna traccia, a parte i fumi dei tubi di scappamento.
QUANDO IL FLOWER FESTIVAL CAPITA A FAGIOLO
Non posso nemmeno vantarmi di averlo programmato apposta. È stato un caso di sincronismo cosmico.
La parata passava anche accanto al nostro alberghetto, Villa Thapae, nome che la fa sembrar più grandiosa di quel che è, ma è graziosa, colorata e strategicamente collocata, questo si.
Grazie a un'organizzazione curata nei dettagli - c'era persino l'addetto pronto a spazzare i petali caduti dai carri e quello a tamponare il sudore dal viso degli accaldati figuranti con fazzolettini di carta - la sfilata si è svolta con la sentita partecipazione dei locali e dei turisti, tra questi il beneamato che, ritrovata la mai dimenticata modalità fotografo professionista, sembrava determinato a non farsi sfuggire niente e nessuno, quasi il Comune lo pagasse a cottimo.
I pachidermici carri allegorici, ventidue variazioni sul tema epico-religioso, con abbondanza di principi, dragoni e leggiadre principesse, niente avevano a che invidiare a quelli ingarofanati della Battaglia Dei Fiori della mia infanzia. Anzi.
Questi, poi, erano persino prediposti per galleggiare. Alle 8 di mattina, puntuale come da scaletta, la parata dei Flower Floats era iniziata sotto il ponte di Nawarat sul fiume Ping; tirati a secco, trainati da trattori addobbati in pompa magna, i carri erano arrivati sotto casa di noi tiratardi svegliati dal frastuono degli autoparlanti Come entrèe ci era capitato un assaggio di simpatici Ladyboys in full drag, quali rappresentanti dell'entertainment cittadino, democraticamente seguiti da alcune bande scolastiche molto comprese del loro ruolo e da diverse confraternite in regali costumi da cerimonia. Non essendo sottotitolate, non ci è dato di sapere né chi fossero né da dove venissero.
Tra due ali di folla festante, la processione, a singhiozzo, è arrivata ai giardini pubblici Nong Buak Haad, sede del Flower Festival, per l'occasione impreziositi da cascate di orchidee, distese di aiuole fiorite, musica e installazioni luminose. Fatta la premiazione, i carri sono rimasti parcheggiati, a disposizione della pubblica ammirazione, tutto il weekend.
LA OLD TOWN NATURALMENTE
Tutto, dicono, si svolge entro le antiche mura. O nei paraggi. Vero, se vi accontentate, o se il tempo a disposizione è poco. La Thapae Gate, una delle quattro porte d'accesso oltre il canale che le affianca, è considerata la nuova zona IN divenire. Depositati i bagagli, la curiosità ci aveva assalito, come sempre, appena arrivati; il vorace beneamato per la voglia di documentare, io per trovare dove mangiare, cosa che faccio andando a naso, seguendo le dritte di amici, o quelle colte sui Social, facendo attenzione alla fuffa. Traversata con pavida cautela la strada, ci siamo imbattuti nel Dada Cafè, da subito eletto campo base per le future quotidiane dosi di vitamine a colazione: una spremuta, preferibilmente esotica, e una ciotola con yogurt, con miele e qualche anacardo, su una ricca macedonia di frutta tropicale; il giusto viatico per arrivare fino a sera.
L'hotel ci aveva indicato il Chiang Mai Breakfast World, ma lo avevamo trovato troppo teutonico per i nostri gusti. Tutti quei salumi e formaggi, con quel caldo. Altrettanto casualmente eravamo entrati da Kat's Kitchens, un ristorantino accogliente, con ottimi piatti locali, preso d'assalto da travellers di tutte le età, riconoscibili per il tipico look stropicciato da "tutto in uno zaino". Un' ottima tempura e sostanziose zuppe formato famiglia ci avevano fatto optare, tanto per cambiare, per Gin Udon, dove eravamo stati gli unici avventori con gli occhi non a mandorla. Il blog di un expat aveva consigliato Madame Koh Fun Dining, un delizioso posticino per thailandesi e turisti senza problemi di budget. Non carissimo, intendiamoci, ma molto ricercato anche nel menù; l'atmosfera poi mi ricordava il film Lanterne Rosse, quello con la splendida e allora giovanissima Ghong Li.
Cenando al Night Bazaar - da non confondere con il Night Market, perché sono in direzioni opposte, raggiungibili con una sana camminata, sempre che si sopravviva agli attraversamenti e non ci si scapicolli sui marciapiedi sconnessi - con pochi bath c'è la possibilità di provare l'intrigante varietà di quel cibo da strada per cui la Thailandia è famosa, al punto che alcuni baracchini si sono aggiudicati il riconoscimento della Guida Michelin.
Il primo giorno, Google maps alla mano, avevamo, per così dire, fatto la griglia della città, riscontrando che a Chiang Mai vige il culto della bellezza.
Da cosa si capisce? dallo spropositato numero di cliniche dentali che offrono lo sbiancamento dei denti, dai beauty parlour dove ti allungano le ciglia e ridisegnano le sopracciglia, dai negozi di manicure con la loro scelta di artigli madreperlati, ingioiellati e luccicanti, dai massage parlour che, se per bene, ti rimettono a nuovo le stanche membra.
Quanto sopra in un'alternanza di negozi di souvenir, stracolmi della stessa paccottiglia delle bancarelle, di ricorrenti 7/11 dove trovi tutto quello che non sapevi ti mancasse, di tattoo shop dove, se sei macho e masochista, e puoi esserlo pur essendo femmina, ti fai martirizzare con i bastoncini di bamboo della tradizione.
Il secondo giorno, da babbioni diventati babbiani creduloni, siamo stati adescati da Dam, un soave signore con annesso tuk tuk giallo nero stile Ape Maia. Per una modicissima cifra si era offerto di portarci a visitare alcuni fascinosi templi dentro le mura - non sto qui a nominarli, primo perchè hanno nomi impossibili, poi perchè, davvero, quando ne vedete uno, toglietevi le scarpe a prescindere, entrate e fatevi trasportare in quel silenzio gentile, che fa bene all'anima.
Per un' oretta tutto come da copione. Poi, con una serie di azzardate gimcane, senza una spiegazione, si era diretto fuori città, oltrepassando la tangenziale, superando le periferie. Consapevoli di esser stati rapiti, l'avevamo lasciato fare, tanto che alternativa avevamo? Pertanto - assieme ad altre vittime, fatte scendere a flotte dai torpedoni delle escursioni - ci eravamo dovuti sorbire, in sequenza, una Silk Factory dal gusto antiquato, pretenzioso e costoso, una Giada Factory e una Silver Factory di gioielli e oggetti di ottima fattura ma fatti in serie. Nonostante il pressing delle gentili commesse, eravamo riusciti a resistere alle avances e a garantire a Dam i tre timbri di presenza sul tesserino che, con aria da scolaretto preso in fragrante, ci aveva mostrato, come a dire:
"Scusate, ma questo devo fare, per campare".
PER CONCLUDERE, CHIANG MAI CI PIACE MOLTO
E non solo perché costa la metà di quanto costano Bangkok, Phuket, o Koh Samui: i rossi songthaew che portano ovunque qui chiedono solo 30 bath a persona, provate a salirci a Samui. Il taxi dall'aeroporto, per portarti in centro, di default ne vuole 150. Quasi non ci credi, dopo gli altri posti citati. Vero, le distanze sono più contenute, il traffico non è in stallo perenne e puzzolente,vero che la popolazione non raggiunge i duecentoventimila abitanti contro gli oltre dieci milioni di Bangkok, ma la planimetria intricata e tentacolare che si allarga dal quadrilatero delle antiche mura perimetrali farebbe supporre di più. Senza nulla togliere al fascino di Bangkok, Chiang Mai è meno caotica e dispersiva, ed è pure tenuta come un gioiellino. Davvero le cartacce per terra si contano, i parchi vengono regolarmente spazzati, persino i mercati sono tenuti con cura.
Checché ne scrivano le guide turistiche, e quanto da me sopra descritto, il centro è solo la punta dell'iceberg di una città che ha ben più da offrire.
Ci sono due zone che vale la pena di esplorare.
La prima è Charoen Rat Road, solo all'apparenza l'ennesimo pezzetto di strada trafficata che costeggia la sponda opposta del fiume. A parte qualche panchina davanti a un Ping pacioso e limaccioso, sembra abbia ben poco da offrire. Invece ci sono almeno una decina di posti che valgono il traballante tragitto in tuk ruk, se non altro per rifarsi gli occhi. Negozi come Villa Gilli, che ospita una magnifica collezione di preziosi tessuti antichi, o come Woo, un elegante concept store con annesso ristorante che farebbe la sua figura anche a Londra o New York. Attraversata la strada, fronte fiume, c'è il Riverside, perfetto per una cenetta a lume di candela. Questi e altre sorprese hanno avuto il pregio di farmi dimenticare la ripetitiva paccottiglia per turisti che, e non voglio fare la snob, onestamente, mi sfinisce. Unica raccomandazione, evitare l'ora di pranzo, perché tutti, ovviamente meno i ristoranti, tirano giù le serrande fino alle 14.
Per chi si sentisse giovane dentro e soprattutto se lo è anche fuori, consiglio il quartiere di Nimman, una zona cresciuta intorno a una delle quattro Università di Chiang Mai.
Nimmanhaemin Road, detta anche Coffee Street, è una lunga arteria dove il tempo lo si passa sorseggiando la suddetta bevanda, che qui è un culto, coltivato nelle alture limitrofe. All'inizio di Nimmanhaenim c'è One Nimman, un lifestyle shopping center, per dirla con i locali. Lo si vede da lontano per via dell'anacronistico campanile. A scendere, sui due lati dell'assolato vialone, si aprono piccole stradine numerate - in Thailandia le chiamano Soi - in un avvicendarsi di mercatini e artistici negozietti pieni di merce, oggetti, abiti, accessori, complementi di arredo, almeno non massificata, oltre a qualche boutique hotel con aspirazioni di design, e come si diceva, gli innumerevoli coffee shop.
Sul cibo c'è solo l'imbarazzo della scelta: la sfilza dei banchetti degli ambulanti gareggia con i tanti ristoranti fusion elegantemente arredati; nell'aria aleggiano irresistibili profumini di spiedini e dolcetti, di delicatezze svariate e prelibate, perché la cucina del Nord è tutta da esplorare. Sempre che, come spero, vi piaccia il genere. Piatto locale il Khao Soi, una sostanziosa zuppetta al latte di cocco e erbe aromatiche, che nasconde sottili spaghettini e micro pezzetti di proteine a scelta, riconoscibile per l'aggiunta di un decorativo cumulo di noodles fritti croccanti. Segnalo una serie di nomi dove pranzare, per orientarsi nell'imbarazzo della scelta: Little Lanna, Pasta Cafe, Cafe de Nimman, e per un drink e finger food, il Nine Nimma. Ovunque i prezzi rimangono modici, alla portata delle tasche studentesche. Una delle cose che più mi sorprendono - e questo vale per la Thailandia, ma direi per l'Asia in generale - è quanto si mangi a tutte le ore del giorno e della notte, ma soprattutto quanto riescono a trangugiare queste diafane creaturine dalla pelle di luna e dal corpo da bambina, che con manine di fata e boccucce di rosa scofanano con grazia distaccata enormi scodelle di noodles fumanti, inappetenti solo apparenti.