STORIA
DI NEDO
E LA GIACCA
DI AUSCHWITZ

Mi capita di pensare alla Shoah non solo nel canonico Giorno della Memoria, ma molto più spesso, e non solo per il suo straordinario orrore. È la “normalità” con la quale un tale evento si è inserito nelle nostre vite e nella nostra storia che me lo rende sempre presente. A Roma, le pietre d’inciampo sono un costante avvertimento di questa normalità. Passeggi sotto il sole e vedi qualcosa brillare sotto piedi: sono telegrafiche storie di vita e di morte, solo un nome e due date, incisi su sanpietrini.

Tra le mille immagini che mi vengono alla mente ce n’è una che torna con una fisicità inaspettata, e che mi fa ogni volta annaspare. È l’immagine di Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz e morto nel 2020 a 95 anni, che parla al Centro Primo Levi di New York di fronte ad un auditorium pieno come un uovo. Sarà stato almeno venti anni fa, ho dimenticato l’anno esatto e perfino le circostanze precise di quell’evento, ma non dimenticherò mai ciò che ho visto e sentito o le sensazioni provate. Forse Fiano era a New York per presentare il suo libro "Il Coraggio di Vivere", pubblicato da Feltrinelli nel 1997, o forse per un evento commemorativo di routine. Andai a sentirlo perché Nedo era il padre di un caro amico, il giornalista Andrea Fiano.


(Nedo Fiano)


Come Andrea, Nedo aveva una voce bella e forte, un italiano chiaro che mi sembrava perfetto, forse a causa di un lieve accento toscano. Avrà avuto già 80 anni quando andai a sentirlo al Levi, era un bell’uomo con dei folti capelli bianchi. Ricordo che dovetti insistere per convincere degli amici inglesi a venire all’evento. “Sarà la solita storia, persecuzione, deportazione e sopravvivenza,” mi dissero, e conoscendoli sapevo che non intendevano sminuire l’importanza della storia stessa quanto riconoscere che dell’argomento si erano occupati abbastanza. Insomma, era una storia che conoscevano bene. Non commentai che non esiste “un abbastanza” quando si parla di Shoah, li convinsi che bisognava andare per sostenere il padre di un amico.

In realtà, nessuno di noi era preparato a quello che Nedo raccontò. Nedo era un grandissimo affabulatore. Non si limitava a descrivere gli eventi della sua vita come se fossero cronaca giornalistica, ti portava dentro le sue storie. Quando disse che sua madre lo chiamava “ricciolino” non si potè non immaginarlo diciannovenne, con i capelli scuri, molto più folti di quelli che aveva in vecchiaia, ancora più bello e forte, con quella voce chiara e la vivacità della gioventù. La madre fu la prima a capire cosa sarebbe successo a tutti loro quando scesero dal treno ad Auschwitz, e i nazisti cominciarono a separare donne, bambini e vecchi dai maschi adulti. Lei fu assassinata immediatamente. Nedo si commosse raccontando l’addio della madre al suo “ricciolino” e con lui tutto l’auditorium. Poi descrisse l’orrore del lager, ma quello lo conoscevamo, lo avevamo visto nei film, avevamo sentito altre storie. All’improvviso, smise di parlare per piegarsi ad aprire una borsa di pelle che aveva ai suoi piedi, e ne tirò fuori qualcosa. Non si capì subito cosa avesse in mano, era un capo di vestiario, ma cosa?



Quando spiegò la giacca a righe nere perché tutti la vedessimo si sentì un “gasp!” collettivo. “Ecco cosa indossavo ad Auschwitz, una giacca di cotone, solo cotone durante i lunghi e freddi inverni polacchi,” disse lui, imperturbabile. Feci fatica a riprendere il respiro, guardai i miei amici e anche loro erano impetriti. Ancora oggi non so perché in quel momento fummo tutti così colpiti. Forse perché all’improvviso quell’orrore così lontano e spesso quasi astratto proprio per essere straordinariamente orribile si era presentato in tutta la sua fisicità davanti ai nostri occhi? Nedo l’ho poi rivisto nel bellissimo documentario Memoria, che racconta come gli ebrei italiani vissero l’esperienza della deportazione. C’è qualcosa di estremamente commovente nell’ascoltare i diversi dialetti dell’ebreo romano, bolognese o fiorentino, per noi che siamo abituati ad ascoltare nei film testimonianze in polacco, tedesco, o Yiddish, e che quindi “sentiamo” le storie attraverso sottotitoli italiani atonali.

Indimenticabile, in Memoria, l’immagine di Nedo in mezzo ai binari ferroviari davanti all’ingresso di Auschwitz che parla tedesco, o che canta in italiano. La sua bellissima voce lo salvò, oltre alla conoscenza del tedesco. I nazisti lo fecero tradurre e cantare per loro. È così che sopravvisse per tornare a vivere in Italia, diventare un uomo d’affari di successo e farsi una famiglia. Emanuele Fiano, deputato del PD, è un altro suo figlio. Il resto della vita Nedo lo dedicò non solo alla memoria della Shoah, ma usando la Shoah, all’educazione sui diritti umani. Quando è cominciata la guerra in Medio Oriente, il 7 ottobre scorso, non ho potuto fare a meno di pensare a Nedo Fiano e chiedermi cosa avrebbe detto lui dell’inumanità di Hamas. Cosa avrebbe pensato della risposta di Israele a quell’orrore. Non lo posso sapere, ma sospetto che avremmo imparato qualcosa da lui, che amava la vita così tanto da non amare solo la propria.

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